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Le banche, le aziende (zombie) e il credito: se fallire non è un’opzione
In un recente articolo abbiamo parlato della (mancata) efficienza del sistema finanziario italiano e dei suoi effetti sull’economia. Riprendiamo il discorso con altri due articoli, volti ad approfondire alcune possibili aree di intervento politico: con il primo – pubblicato lunedì – ci siamo concentrati sul lato dell’offerta di credito (le banche); quello di oggi avrà invece come oggetto il lato della domanda (le imprese).
Ad oggi il dibattito sul sistema finanziario si è concentrato fortemente sul problema dell’eredità dei crediti non performanti e su come riuscire a liberare i bilanci delle banche senza avere effetti negativi sul credito. Un progetto di ricerca della Banca d’Italia mette tuttavia in dubbio che l’offerta di credito sia conseguenza diretta della quantità di crediti non performanti (NPL) in pancia ai bilanci delle banche, attribuendo invece maggiore importanza al lato della domanda. Ed è proprio da un’attenta analisi di domanda e offerta di credito che occorre partire per poter individuare le aree critiche e pensare ad una risposta politica efficace, che tenga conto di tutti gli aspetti di questo complesso problema.
Il lato imprenditoriale: se fallire non è un’opzione
Se pensare ai “problemi del credito” ci spinge naturalmente a focalizzarci sul lato dell’offerta (le banche), occorre riportare l’attenzione anche su quelle che sono le loro controparti sul lato della domanda: le imprese.
Negli ultimi sessant’anni l’economia italiana ha mantenuto un forte attaccamento al modello imprenditoriale a partire dal quale ha conosciuto il proprio boom: quello della mini-impresa a conduzione personale da parte dell’imprenditore. È stato proprio questo modello, tuttavia, a rivelarsi estremamente fragile di fronte all’urto della crisi e, in particolare, a presentare un gran numero di criticità riguardanti il rapporto banca-impresa quando quest’ultima entra in difficoltà. Per poter capire come le caratteristiche delle imprese italiane hanno influito sull’efficienza economica del sistema finanziario è quindi necessario soffermarsi sul processo che segue una crisi aziendale e sugli incentivi che esso genera per gli agenti economici coinvolti. Partiamo da una prima suddivisione: nei casi meno gravi, l’azienda può chiedere l’accesso a delle misure tipiche (concordato preventivo, piano di risanamento e accordo di ristrutturazione) che le consentano di superare la crisi o di trovare un accordo con i creditori, evitando il fallimento. Se invece la società diventa insolvente, la legge disciplina alcune procedure finalizzate a liquidare quanto resta del patrimonio, dividendolo tra i creditori; tra queste procedure quella di fallimento. È qui che entrano in gioco due dimensioni chiave della relazione banca-impresa: l’efficienza del sistema fallimentare e il livello di sovrapposizione tra la figura dell’imprenditore e l’impresa di cui è a capo. Un recente studio dell’OCSE mette in luce questi due elementi, evidenziando i compromessi che essi generano in termini di policy.
In primo luogo, un sistema fallimentare efficace deve basarsi su un duplice obiettivo: alla protezione di creditori, impiegati e partner commerciali deve essere unito l’intento di una risoluzione rapida ed efficiente della crisi d’impresa. Fondamentale in questi termini è cercare di riconoscere lo stato di crisi prima che sia troppo tardi, ad esempio attraverso meccanismi di allerta preventivi (ad oggi assenti in Italia). Se la crisi è giudicata reversibile e l’azienda presenta margini di ripresa, un ruolo chiave è poi giocato dalla possibilità di accedere a ulteriori finanziamenti tramite operatori finanziari specializzati nel risanamento e la ristrutturazione di aziende in difficoltà, quali ad esempio le società di private equity. La mini-riforma della legge fallimentare 2015 nasce proprio dall’intento di ampliare le possibilità di finanziamento di un’impresa in questa direzione – opzione ad oggi quasi inesistente – creando forme di garanzia più flessibili per le aziende.
D’altro canto, è bene ricordare che diverse strutture societarie generano diverse responsabilità in caso di crisi: in un’economia in cui impresa e imprenditore sono legati a filo doppio sia in termini finanziari che in termini di immagine, uno slancio riformatore a protezione delle imprese può trasformarsi facilmente in un’arma a doppio taglio capace di rallentare o addirittura impedire la risoluzione efficiente di crisi insanabili. In generale, infatti, più il confine fra impresa e imprenditore diventa labile, più aumentano i costi che quest’ultimo dovrà sostenere in caso di fallimento: alla “consueta” perdita del capitale investito nell’impresa si sommeranno sia costi personali, quali lo stigma sociale che subirà in quanto fallito o l’eventuale coinvolgimento in procedimenti penali, sia costi economici, come la maggiore difficoltà di dare inizio a nuove iniziative imprenditoriali o la perdita di gran parte del patrimonio personale (e.g. in assenza del carattere di responsabilità limitata).
Alla prospettiva di dover sopportare questi costi, è naturale che l’imprenditore risponda cercando di evitare il fallimento in qualsiasi modo, anche se egli stesso è convinto dell’impossibilità di rilanciare la propria impresa. Agli impedimenti legislativi o burocratici si aggiunge dunque una mancanza di volontà di accettare il fallimento come opzione percorribile da parte degli attori coinvolti ed è così che, anche sul piano della domanda di credito, si generano gli incentivi per mantenere in vita le cosiddette aziende zombie. Se, quindi, la mini-riforma del 2015 ha costituito un primo passo per provare a rilanciare un certo numero di imprese in difficoltà, la stessa può essere giudicata un passo falso in assenza di provvedimenti diretti a semplificare le procedure di fallimento e a rivedere vincoli ed incentivi derivanti dalla scelta di diverse forme societarie.
Il gioco di interessi sul piatto è assai difficile da bilanciare. Il punto di arrivo risiede in un equilibrio tra il sostenere efficacemente le aziende con prospettive di ripresa – offrendo loro una possibilità di accedere al credito necessario a rilanciarsi – e limitare i finanziamenti ad aziende zombie, incentivandole così ad uscire dal mercato senza creare danni per il tessuto economico circostante.
Senza la presunzione di aver affrontato l’argomento esaustivamente, abbiamo messo in luce alcuni degli ostacoli a questo difficile bilanciamento e proposto alcune soluzioni. In primis, un rafforzamento degli istituti di credito a partire da un aumento di capitale, insieme ad una governance più efficiente e trasparente potrebbero aprire la strada ad un’allocazione del credito più produttiva. In secondo luogo, una semplificazione delle procedure fallimentari e maggiori incentivi verso forme societarie che separino chiaramente l’impresa dall’imprenditore potrebbero facilitare un efficiente ricambio imprenditoriale e limitare la quantità di capitale bloccato in imprese improduttive.
Una soluzione finale e più ambiziosa vede un ripensamento sia dell’industria finanziaria, che ormai da decenni offre sempre lo stesso prodotto e ancora stenta ad integrare i nuovi avanzamenti tecnologici, sia delle imprese italiane, nell’innovare i loro modelli societari troppo sottocapitalizzati e informali per far fronte alle dinamiche globali.
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