categoria: Res Publica
Flat tax, prima di tutto serve innovare istituzioni e classe dirigente
Partendo dal dibattito avviato dalla proposta dell’Istituto Bruno Leoni con l’articolo di Nicola Rossi sul Sole 24 Ore, proviamo a fare qualche riflessione.
Il ruolo dell’economia politica, in maniera particolare con riferimento alla branca della scienza delle finanze, si sviluppa nell’infinito dibattito connesso all’irrisolto dilemma tra il concetto di efficienza ed equità. Le scelte di politica economica sono per l’appunto una scelta su quale lato della bilancia voler pendere.
Società caratterizzate da una forte ispirazione liberale tendono a porre in risalto il concetto di efficienza economica, indirizzando la politica economica verso un approccio con imposte di tipo “flat”, meglio se di tipo “lump sum”, ossia un’imposta secca. Tale tipo di imposta infatti non produce distorsioni sulle scelte di allocazione dell’individuo, con particolare riferimento alle scelte di quanto lavorare e quanto avere di “tempo libero”.
Ci si può chiedere se esistano le imposte “lump sum”. La risposta è semplicemente no, perché nel mondo reale le forme di intervento impositivo condizionano il mercato. Si pensi all’introduzione di un’imposta commisurata al consumo di un bene, il prezzo con cui consumatori e produttori si confrontano non riflette più soltanto le condizioni di produzione (costi marginali) e di consumo (utilità marginale), ma anche il livello di imposta, generando dunque una “distorsione”.
Dall’altra parte, società fondate su una forte impronta di equità sociale, che spesso hanno assunto connotati fortemente socialisti, insistono sul concetto di trattare diversamente situazioni oggettivamente diverse, si pensi alla impostazione sviluppata da Amartya Sen. Pertanto, un meccanismo di imposte progressive postula il concetto di contribuzione commisurato alla propria capacità contributiva.
La scelta non risulta tanto nel paradigma “migliore” da adottare ma piuttosto nell’implementazione delle scelte effettuate. In altre parole il punto non è scegliere se 20%, 24,67%, 25%, 25,09% come aliquota ma piuttosto il problema sta nella mancanza di una classe dirigente che sappia garantire l’implementazione del “contratto sociale”.
In Smart Institute, come già sottolineato in altri contesti, pensiamo che ciò che manchi sia piuttosto il concetto di efficienza nel raggiungere gli obiettivi di politica economica prescelti, in altre parole manca il concetto di accountability e di responsabilità di chi gestisce ed amministra i beni pubblici.
Pertanto, il problema non è il meccanismo di calcolo dell’aliquota fiscale o della variazione nell’aliquota fiscale marginale che tende a creare distorsioni nelle scelte di investimento delle imprese e di consumo e risparmio da parte dei singoli individui. Il vero tema risulta essere la dimensione del cuneo fiscale presente sull’imposizione del reddito da lavoro, connessa all’eccessiva vischiosità del mercato del lavoro. Appare poco ragionevole che si speri in una crescita del PIL del nostro Paese se poi l’imposizione fiscale – sia flat sia progressiva, unitamente alla complessità burocratica – finisce per assorbire metà di quanto prodotto. Il quadro si aggrava ulteriormente in quanto alla porzione (ingente) di reddito prodotto a cui l’individuo deve rinunciare non corrisponde un insieme di servizi, di infrastrutture, e più in generale, di gestione dei beni pubblici tali da migliorare il proprio benessere. Anzi – proprio la mancanza di accountability della classe dirigente, con particolare riferimento all’amministrazione pubblica – finisce per produrre, paradossalmente, disservizi e ulteriori costi, evidenti in numerosi settori.
I paesi ricchi e poveri differiscono, soprattutto, nelle loro istituzioni politiche ed economiche. Secondo Acemoglu e Robinson [i], nei paesi ricchi esistono istituzioni integrative (cioè istituzioni democratiche che coinvolgono l’intera società), mentre nei paesi poveri esistono istituzioni estrattive (ovvero istituzioni autoritarie e sfruttatrici che rafforzano il potere di una classe di élite).
L’inizio del cambiamento politico è di solito impegnativo e le sue conseguenze tendono ad essere imprevedibili, poiché molti paesi sono bloccati in un circolo vizioso che è estremamente difficile da rompersi.
Ma ancora, il primo passo verso la lunga strada della democrazia e prosperità è una profonda comprensione delle istituzioni di un dato paese e queste sono lo specchio della propria classe dirigente.
Perciò il cambiamento politico significa sempre cambiamenti istituzionali. E questo richiede tempo, non scorciatoie.
Twitter @pasqualemerella
[i] Si veda “Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity, and Poverty” – 2012
Foto: Joshua K. Jackson | Unsplash