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A che punto è la questione del reddito di base universale (e chi ci rimette)
Pubblichiamo un post di Silvia Merler apparso sul blog del think tank europeo Bruegel, di cui Silvia è affiliate fellow –
L’idea di un reddito di base universale (Rbu), un trasferimento incondizionato versato a ciascun cittadino, è salita alla ribalta nei primi mesi di quest’anno, quando la Finlandia ha annunciato il varo di un progetto pilota. Ed è tornata al centro del dibattito dopo che l’Ocse, recentemente, ha pubblicato un policy brief e una nota metodologica con cui sviscera costi e benefici dell’adozione di un Rbu.
Il modo più semplice di introdurre un Rbu sarebbe prendere le indennità in denaro versate a persone in età da lavoro e spalmare la spesa totale relativa a queste indennità in parti uguali fra tutti quelli più giovani dell’età di pensionamento standard. Il Rbu risultante sarebbe molto più basso della soglia di povertà per un singolo individuo. Pertanto, senza nuove tasse, un Rbu a impatto zero sui conti pubblici resterebbe ben lontano dall’obbiettivo di sradicare la povertà.
Un modo forse meno ambizioso potrebbe essere quello di usare i livelli delle indennità di reddito minimo garantito (Rmg) previste nel sistema di protezione sociale esistente come valore obbiettivo iniziale per un Rbu. Tuttavia, molti individui ricevono altre indennità oltre al Rmg, per pagare costi aggiuntivi legati a loro bisogni specifici, e con un Rbu forfettario andrebbero a rimetterci ancora di più. Verosimilmente, quindi, sarebbe auspicabile conservare alcuni trasferimenti in denaro mirati, ma questo significherebbe ridurre ancora di più l’entità del Rbu, se si vogliono mantenere le spese ai livelli attuali. Pertanto, un Rbu a livelli socialmente e politicamente accettabili comporterebbe un aumento della spesa, e di conseguenza introiti fiscali più alti per finanziarlo.
La simulazione dell’Ocse relativa a quattro Paesi (Finlandia, Francia, Italia e Regno Unito) mostra che un reddito di base universale è semplice mentre le indennità esistenti sono complicate, e rimpiazzarle con un’indennità unica forfettaria produrrebbe complessi incastri di guadagni e perdite. Quelli che ricevono indennità sociali normalmente ci rimetterebbero, se venissero sostituite con un reddito di base universale a livelli da Rmg. Quelli che nel sistema attuale non hanno i requisiti per accedere a nessuna indennità sociale ci guadagnerebbero, sempre che l’incremento delle indennità superi il corrispondente incremento delle tasse. Le famiglie a basso reddito sono quelle che più spesso accedono a meccanismi di supporto al reddito differenziati per fasce di ricchezza, perciò probabilmente, con un Rbu fissato a un livello simile a quello del Rmg, ci andrebbero a perdere.
Robert Greenstein, del Centre on Budget and Policy Priorities, ha analizzato la questione con riferimento specifico gli Stati Uniti. Charles Murray ha proposto che ogni cittadino dai 21 anni in potrebbe ricevere un sussidio annuale di 13mila dollari depositato elettronicamente su un conto corrente bancario in rate mensili, di cui 3mila dollari andrebbero usati per l’assicurazione sanitaria, lasciando ogni individuo adulto con 10mila dollari di reddito annuo disponibile per il resto della sua vita. Greenstein sottolinea che con una popolazione attualmente oltre i 300 milioni, un Rbu di 10mila dollari l’anno costerebbe oltre 3mila miliardi di dollari. È una cifra che equivale a oltre tre quarti dell’intero bilancio annuale dello Stato federale, e quasi al 100 per cento di tutte le tasse incassate dal Governo federale.
Il finanziamento di un Rbu solleva dubbi di fondo sulla sua fattibilità politica, sia ora che nei decenni a venire. I fautori di questa misura generalmente la propongono come surrogato dell’attuale «Stato sociale», ma potrebbe accrescere la povertà e la disuguaglianza, invece di ridurle. Alcuni sostengono che eliminando i programmi attuali realizzeremmo grandi risparmi amministrativi che potremmo convertire in esborsi per il Rbu. Ma secondo Greenstein non è così, perché i costi amministrativi dei programmi sociali più importanti per le fasce di reddito più basse – i buoni spesa, il Medicaid, il credito d’imposta per i redditi bassi, i contributi all’affitto, le indennità di disabilità e i contributi per le mense scolastiche – consumano solo tra l’1 e il 9 per cento delle risorse, che vengono usate in larghissima misura per rafforzare i redditi e il potere d’acquisto delle famiglie a basso reddito.
Berk Özler, della Banca mondiale, fa riferimento a un saggio di van de Walle, Ravallion e Brown, che esamina i metodi migliori per indirizzare gli aiuti ai poveri e cerca di capire quanto riescono a ridurre la povertà. Tra le politiche prese in esame ci sono un reddito di base universale, sussidi mirati sulla base di indicatori surrogati del reddito, miglioramenti a questi indicatori proposti dagli autori e alcune semplici opzioni di sussidi mirati per categorie (per esempio anziani, bambini, vedovi ecc.). La conclusione è che ridurrebbero la povertà di meno del 25 per cento, a seconda del parametro scelto per definire la povertà. Il Rbu ridurrebbe l’indice di diffusione della povertà del 14,5 per cento. I sussidi mirati per categorie danno risultati molto simili a quelli del Rbu. Fanno invece notevolmente meglio se si usano misure della povertà sensibili alla distribuzione (43 per cento di riduzione dell’indice di intensità della povertà), ma solo ipotizzando un miglioramento dei metodi correnti di determinazione del reddito, usando regressioni quantiliche della povertà o le fonti di reddito ricavate da dati panel, quando disponibili. La differenza tra la performance del Rbu e il metodo mirato migliore appare piccola, ma è ingannevole: in un Paese di 25 milioni di abitanti, come il Camerun, ridurre l’indice di diffusione della povertà dal 17,1 al 15,4 per cento consentirebbe a quasi mezzo milione di persone di sfuggire alla povertà
Shanta Devarajan offre tre ragioni in favore del Rbu. La prima è un uso efficiente delle rendite da risorse naturali. In gran parte dei Paesi petroliferi dell’Africa subsahariana, la spesa pubblica produce scarsi risultati. Una ragione è che i proventi del petrolio vanno direttamente allo Stato, senza passare per le mani dei cittadini. Se venissero trasferiti direttamente ai cittadini, e il Governo dovesse tassarli per finanziare la spesa pubblica, i cittadini sarebbero consapevoli dell’entità di questi proventi e avrebbero un maggiore incentivo a controllare il modo in cui vengono spesi i soldi delle loro tassi. Anche senza questi cambiamenti, un semplice trasferimento del 10 per cento dei proventi in molti Paesi esportatori di petrolio potrebbe di fatto eliminare la povertà.
La seconda ragione è migliorare il benessere dei poveri. Rimpiazzare sussidi inefficienti con trasferimenti in denaro garantirebbe come minimo che il beneficio monetario arrivi effettivamente ai poveri. Ma potrebbe anche dare loro più potere. I sussidi mirati in teoria sarebbero preferibili, ma nella pratica l’individuazione dei poveri è così insidiosa che uno schema universale potrebbe ottenere gli stessi risultati. La terza ragione è che consente di adattarsi alle tecnologie che fanno risparmiare manodopera. Il dilemma di queste tecnologie è che accrescono la produttività, ma tolgono il lavoro a molte persone. Gestire la transizione è difficile dal punto di vista economico, politico e morale. Un sistema in cui parte dell’incremento di produttività è tassato, e poi distribuito sotto forma di trasferimenti in denaro a tutti i cittadini, che lavorino o no, potrebbe aiutare a risolvere almeno in parte questa contraddizione.
Rick McGahey, dell’Institute for New Economic Thinking, dice che il dibattito sul Rbu dovrebbe focalizzarsi sull’indebolimento di lungo periodo del potere contrattuale dei lavoratori. Buona parte dell’interesse che circonda oggi questa misura nasce dalla convinzione che la tecnologia sta eliminando posti di lavoro più rapidamente di quanto riesca a crearne di nuovi, e che la crescita dell’occupazione in futuro sarà molto più bassa. McGahey sostiene che l’idea che lo sviluppo della tecnologia sarà così dirompente da giustificare l’accantonamento dello Stato sociale esistente e di altre istituzioni del mercato del lavoro sostituendole con un Rbu va trattata con cautela. Politicamente, potrebbe tradursi in un’alleanza con gli ultraliberisti che sostengono il Rbu perché vogliono eliminare lo Stato sociale e usare i fondi per fornire sussidi in denaro agli individui, con lo scopo finale di ridurre la spesa pubblica. Il dibattito sul Rbu invece dovrebbe concentrarsi sul rafforzamento del potere economico del capitale rispetto al lavoro negli ultimi trent’anni e passa. Le tecnologie avanzate forse non sono un evento storicamente unico, ma l’ultimo dei fattori che limitano la capacità di contrattazione dei lavoratori, contribuendo all’indebolimento della domanda e alla crescita della disuguaglianza.
Nathan Keeble, del Mises Wire, sostiene che il Rbu non creerebbe incentivo al lavoro, non contribuirebbe a risolvere la disoccupazione e non allevierebbe la povertà, e nel lungo periodo potrebbe rivelarsi peggiore dei sistemi di welfare tradizionali tarati sul reddito. Innanzitutto non elimina i disincentivi al lavoro impliciti nei programmi di welfare, semplicemente li rovescia, perché questo programma dev’essere finanziato e qualunque sistema di welfare, compreso il Rbu, è necessariamente un meccanismo per la ridistribuzione della ricchezza. La tassazione progressiva che è necessaria per finanziare un Rbu significa che più una persona guadagna, più alta è la percentuale di ricchezza che gli viene tolta. I disincentivi al lavoro rimangono quindi ancora presenti nel sistema fiscale: semplicemente vengono trasferiti su altri gruppi di persone, a più alto reddito. Inoltre, sostiene Keeble, il Rbu riduce il potere dei consumatori di indirizzare il mercato, perché sovvenziona attività non produttive.
Bryan Capland ed Ed Dolan hanno avuto un lungo scambio di opinioni, nei primi mesi di quest’anno, sull’atteggiamento che dovrebbero avere i libertarian (gli ultraliberisti) verso il Rbu. Capland sosteneva che se da un lato abbandonare i dettagliati sistemi di accertamento del reddito che caratterizzano altri tipi di spesa sociale ridurrebbe l’azzardo morale, dall’altro farebbe crescente enormemente il numero di aventi diritto. Si è detto «allibito che chiunque abbia simpatie libertarian possa prendere sul serio il Rbu», perché lo Stato sociale è già insostenibile, soprattutto perché i nostri sistemi di accertamento delle fonti di reddito per età e stato di salute non sono abbastanza stringenti. Dolan ha raccolto la sfida e ha proposto una tassonomia di tre tipi di libertarian che potrebbero prendere questa misura molto sul serio, affermando che il Rbu potrebbe essere una politica da difendere per i contestatori pragmatici di Governi benintenzionati ma inefficaci, per i liberali classici e per i fautori della libertà dell’individuo.
Twitter @SMerler
(Traduzione di Fabio Galimberti)