categoria: Res Publica
Viaggio nella disuguaglianza del merito e delle opportunità: capitolo scuola
Imperversano le discussioni allarmistiche sulla disuguaglianza dei redditi, su quanto guadagni in più un manager rispetto a un impiegato, sui ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Si tratta di un dibattito che, molto spesso, non si basa sui numeri e, soprattutto, ignora le disuguaglianze meritocratiche, frutto del lavoro faticoso e lungimirante di nonni, genitori e figli che meritano rispetto in una società che si vanta di riconoscere un valore sociale alla famiglia. Disuguaglianza non significa necessariamente ingiustizia.
Premesso in generale che solo con la crescita si possono ottenere condizioni economiche e di benessere migliori per tutti, avrebbe invece molto più senso focalizzare l’attenzione sulla disuguaglianza delle opportunità piuttosto che su quella dei risultati, osservando ad esempio i dati sulla mobilità intergenerazionale. Se si riescono a mettere da parte soluzioni semplicistiche, il cerchio sul come ridurre le disuguaglianze di opportunità e favorire la mobilità intergenerazionale si può restringere a due principali driver: a) un’economia di mercato libera e concorrenziale, che consenta a chi ha un’idea imprenditoriale di poter aver successo anche in assenza di un capitale importante di partenza; b) l’effettiva attuazione dell’articolo 34 della nostra Costituzione, nel comma in cui prevede che «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».
Concentriamoci, per il momento, sul diritto allo studio. Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Istat «Associando i titoli dei figli a quelli dei genitori, tuttavia, si osserva che oltre il 40 per cento dei figli la cui famiglia d’origine ha un livello d’istruzione basso non va oltre il titolo di licenza media, e poco più del 10 per cento riesce a ottenere un titolo universitario. All’opposto, tra i figli dei laureati, l’incidenza dei titoli di licenza media è meno del 4 per cento e oltre il 60 per cento ha acquisito un titolo universitario. La capacità attuale del sistema di istruzione di promuovere l’eguaglianza delle opportunità appare, quindi, a tutt’oggi sostanzialmente limitata all’obbligo scolastico e, anche in quest’ambito, gli abbandoni sono fortemente correlati col titolo di studio conseguito dai genitori».
Ora, possiamo anche attribuire questi dati alle colpe dei genitori (e in parte è sicuramente vero), ma sarebbe ingannevole non considerare altresì le gravi lacune del sistema scolastico italiano. Non tutti gli alunni hanno infatti la possibilità di accedere a scuole pubbliche o private di alta qualità e i risultati dei test basati su parametri internazionali dimostrano ampie disparità regionali e infra-regionali. Tuttavia, sono ancora in molti a contestare la validità di tali test standardizzati, con innumerevoli tentativi di boicottaggio. Proteste a dir poco singolari, sia perché appaiono abbastanza sterili di contenuti sia perché in ogni caso gli esiti dei test fanno il giro del mondo e influenzeranno in futuro l’efficacia dei curriculum di chi proviene da una regione che produce performance negative. Si tratta di etichette difficili da eliminare.
La politica italiana sembra insensibile a queste problematiche e anche quando ha qualche buona intuizione che permetterebbe di introdurre forme di concorrenza tra scuole, finisce per farsi depotenziare dalle forze sindacali. Quest’ultime – mai dimenticarlo – rappresentano gli insegnanti, non gli studenti. Ma cosa c’entra la concorrenza con l’articolo 34 della Costituzione? Nulla, per chi lo interpreta come una mera garanzia di poter studiare gratuitamente fino al raggiungimento di una laurea. Tanto, per chi si interroga sul valore di ogni titolo di studio e sulla spendibilità nel mercato del lavoro.
Cerchiamo di capire se la pressione competitiva possa migliorare la scuola pubblica. Tra il 2007 e il 2015 gli studenti delle scuole pubbliche di Washington DC sono passati dall’ottenere risultati da ultimi posti nel TUDA test (Trial Urban District Assessment) a far registrare la miglior crescita delle performance tra tutte le città degli Stati Uniti in cui si effettua il detto test. Cosa c’è dietro l’apparente exploit? Nel 2004 a Wahington DC è stato creato un programma basato sui voucher scuola, dei “buoni” finanziati con risorse pubbliche che consentono alle famiglie meno abbienti di iscrivere i figli a scuole private (ne abbiamo parlato su questi pixel già qui e qui). Il The Institute of Education Sciences (IES) ha deciso di testare l’efficacia del programma dei buoni scuola e i risultati dimostrano che – per l’anno 2012 – gli studenti che non hanno usufruito dei voucher hanno fatto registrare performance migliori rispetto a chi ne ha usufruito per trasferirsi in scuole private. Quindi i voucher non funzionano? Non proprio. In primo luogo la funzione dei buoni è quella di dare una possibilità di scelta in più, un diritto in più capace di ridurre le differenze di reddito dei nuclei familiari, non quella di asserire che le scuole private siano migliori di quelle pubbliche. Inoltre, come evidenzia il Cato Institute, il campione di studenti che non ha ottenuto i voucher – utilizzato nello studio dell’IES – è composto solo per il 48 % da studenti rimasti in scuole pubbliche tradizionali, mentre il 42 % riguarda studenti delle cosiddette charter schools, considerate pubbliche in quanto ricevono fondi pubblici, ma caratterizzate da una gestione molto più autonoma e meno tradizionale. Come ricorda The Economist le scuole private, nel caso di Washington, sono state messe in crisi dalle charter schools. Su quest’ultime ha puntato molto anche Michelle Rhee, la quale – a capo delle scuole pubbliche della capitale statunitense tra il 2007 e il 2010 – ha compiuto una pesante opera riformatrice, responsabilizzando gli insegnanti sulla base delle performance degli studenti, provvedendo ad effettuare numerose dismissioni di scuole ritenute non adeguate e negoziando con i sindacati degli importanti premi salariali legati proprio alle performance dei ragazzi.
Difficile trovare nessi di causalità tra i voucher, le charter schools, la controversa figura riformatrice di Mrs Rhee e i miglioramenti fatti registrare dagli studenti, ma è innegabile che l’ampliamento dell’offerta formativa e la possibilità concreta anche per i meno abbienti di poter scegliere scuole di qualità (pubbliche, private o charter) stiano producendo risultati significativi.
Ed è proprio la possibilità reale (non teorica) di scegliere e di poter accedere a un insegnamento di qualità, prescindendo dal reddito, che merita i dovuti approfondimenti. Sempre negli Usa fece scalpore la decisione di un giudice della Contea di Los Angeles che nel 2014 accolse un ricorso promosso da nove studenti di una scuola pubblica, supportati dalla fondazione Students Matter, contro lo Stato della California e le sue tutele tese a impedire la licenziabilità degli insegnanti non meritevoli. Alcuni passaggi della sentenza restano impressi nella memoria: «All sides to this litigation agree (…) that grossly ineffective teachers substantially undermine the ability of that child to succeed in school». Molto significativo anche il richiamo della celebre decisione in Brown vs. Board nella quale la Corte Suprema pose fine alla segregazione razziale nelle scuole: «While these cases [(Brown, Serrano I, Serrano II, and Butt)] addressed the issue of a lack of equality of education…, here this Court is directly faced with issues that compel it to apply these constitutional principles to the quality of the educational experience». Due anni dopo la storica sentenza è stata ribaltata in appello, ma il varco è stato aperto[1].
Cosa vuol dire tutto ciò? Che i problemi si risolvono con qualche licenziamento? No. Che dovremmo copiare le innovazioni statunitensi? Nemmeno. È errato pensare che esperimenti effettuati in determinati contesti possano funzionare automaticamente in altri che hanno storie e culture diverse. Ma le esperienze internazionali si possono studiare, osservare, sperimentare. Se la formazione degli studenti è il bene da tutelare, non ci sarebbe nulla di male nel cercare di raggiungere un tale fine rendendo più responsabile (anche economicamente) chi deve assolvere il gravoso compito di essere dirigente scolastico o insegnante, così come non ci sarebbe nulla di male nel cercare di ampliare il potere di scelta di chi appartiene ai ceti medio-bassi. Se invece ci si continua a nascondere dietro una retorica vuota del mito dell’istruzione pubblica senza entrare nel merito dei risultati raggiunti, inutile poi lamentarsi del fatto che la scuola non riesca a fungere adeguatamente da ascensore sociale.
Twitter @frabruno88
[1] Il caso californiano è ben raccontato in Giavazzi F., Barbieri G., “I signori del tempo perso. I burocrati che frenano l’Italia e come provare a sconfiggerli”, Cap. 1, Longanesi 2017.