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Perché il fare impresa è il vero tabù del Sud
Va dato merito ad Econopoly di tener vivo il dibattito sul Mezzogiorno da almeno un anno a questa parte, con numerosi articoli e approfondimenti sull’argomento (in parte rinvenibili qui).
Negli ultimi due post pubblicati sul tema, si rinviene un punto comune nella frase di Gianfranco Viesti «Non solo perché l’operatore pubblico pesa di più al Sud per le spese in conto capitale, ma anche perché la spesa corrente ha determinato una maggiore contrazione al sud rispetto al nord, e il divario è aumentato» e in quella di Federico De Novellis «Se vi è consenso sul fatto che la politica di bilancio restrittiva ha evidentemente pesato in misura maggiore sulle aree in cui l’incidenza del pubblico sul totale dell’economia è maggiore (…)».
Entrambi concordano sul fatto che il Sud dipenda dallo Stato più del Nord.
Lo conferma anche la Commissione europea, in un recente report sulla competitività delle regioni europee a basso reddito e a bassa crescita (le lagging regions). Si legge nel report che nel 2012 la spesa governativa ha rappresentato il 34 % del Pil del Mezzogiorno contro il 18 % del Pil del Centro-Nord. Dato che la crisi ha causato una contrazione della domanda interna e della spesa pubblica, il Sud ha sofferto più del Nord. La riduzione degli investimenti pubblici, pari al 27 % tra il 2008 e il 2014, ha pesato per il 4 % del Pil nel Mezzogiorno rispetto al 2 % nel resto del Paese. Fin qui, nulla di nuovo. Ma iI report dice anche altro.
È veramente più difficile “fare impresa” nel Mezzogiorno? Dai numeri sembrerebbe di sì. Sia nel numero di dipendenti per impresa, sia nella densità delle imprese, le regioni del Sud mostrano dati inferiori rispetto al resto del Paese, come si può evincere dai grafici 3-9. Poche imprese e troppo piccole. Ma perché?
La Commissione indica una serie di cause che ostacolano la competitività delle lagging regions, partendo dalla rigidità del mercato del lavoro che penalizza maggiormente le regioni in ritardo rispetto alle altre. Sul punto, in Italia, lo scontro ideologico è ancora tale da impedire qualsiasi ragionamento politico sulla questione (a danno dei giovani disoccupati meridionali non rappresentati).
Passiamo poi alla facilità di fare impresa, con la comparazione tra alcune città facenti parte delle lagging regions di Italia, Spagna e Polonia. Le nostre città sono ultime nell’indice aggregato Doing Business. Facciamo bene solo nella facilità di iniziare un’attività di impresa (fondare una S.r.l. è obiettivamente semplice), relativamente bene nel trasferire una proprietà immobiliare, male nelle altre voci. In particolare, in negativo si segnalano i 301 giorni per ottenere un permesso a costruire in Sicilia e i 279 in Calabria (peggio di una già negativa media nazionale, 231 giorni), nonché i giorni necessari per risolvere una disputa commerciale (e anche qui la media nazionale è già pessima, con i suoi 1400 giorni). Per ottenere una sentenza civile di primo grado servono 11 mesi ad Aosta, 5 anni e 7 mesi a Lamezia Terme, mentre la percentuale dei casi pendenti per più di 3 anni varia dal 3 % di Rovereto al 68 % di Foggia. E non c’è correlazione tra il carico di lavoro e la lunghezza dei processi.
Poi ci sono i trasporti. Nei dati del 2014, fatto 100 l’indice UE del Potential Road Accessibility, tutte le regioni del Sud sono al di sotto della media nazionale (80). Salvo poche eccezioni, la stessa situazione si presenta con riferimento alla rete ferroviaria e all’alta velocità. Anche nel trasporto aereo le regioni del Sud risultano più svantaggiate, con riferimento alla distanza dagli aeroporti e alla frequenza dei voli.
Si passa poi a scuola e università. Quasi tutte le regioni del Sud hanno un tasso di popolazione laureata inferiore alla media nazionale, idem per la spesa pubblica in Ricerca e Sviluppo. Infine, un classico, l’inefficienza della pubblica amministrazione. L’indice dell’European Quality of Government (2013) sottolinea anche in questo caso un risultato peggiore di tutte le lagging regions rispetto alla media nazionale. Viene evidenziato (in negativo) il caso della Campania, ai livelli delle peggiori regioni bulgare e rumene.
Ora, in via meramente sintetica, sopra sono elencati alcuni nodi strutturali che ostacolano il “fare impresa” al Sud e che richiederebbero interventi ad hoc. Sì, servirebbero interventi pubblici per alcuni di essi, ad esempio per i trasporti e per gli investimenti in R&D, ma dovrebbero essere mirati e corrispondenti agli obiettivi, non diretti a logiche clientelari di mero stimolo della domanda. Altre voci invece, come le inefficienze della giustizia e delle pubbliche amministrazioni, non richiedono più spesa pubblica, semmai azioni sul sistema scolastico e iniezioni di concorrenza (non c’è spazio per parlarne).
Ma ipotizziamo che si riesca a migliorare nei parametri sopra descritti, grazie ad efficaci investimenti pubblici. Cosa ostacola ulteriormente il “fare impresa” al Sud?
Tralasciando in questa sede gli studi sulle differenze di capitale civico (Guiso, Sapienza, Zingales 2017), già su questi pixel Rosamaria Bitetti, ricordando l’approccio di Acemoglu e Robinson, aveva evidenziato alcune problematiche di fondo nel Mezzogiorno impattanti in negativo sull’attitudine all’imprenditorialità: «Per decenni il Sud ha insegnato ai giovani che per avere un posto fisso, aspirazione “zaloniana” di una vita perfetta, bisognava corteggiare il sindaco o il potente di turno. Che imparare a vincere un bando della Regione era più importante che imparare a fare un business plan. Che se volevano aprire un’impresa, dovevano conoscere le persone giuste (…)».
Io ne aggiungo un’altra, che si intreccia con gli approcci culturali e istituzionali. La classica scoperta dell’acqua calda, che però continua ad impattare enormemente sul mancato sviluppo del mercato privato, più di quanto si voglia riconoscere: l’illegalità. Dove non c’è la rule of law, la “mano” di Adam Smith oltre ad essere invisibile resta anche immobile. E questo si ripercuote su numerosi e decisivi aspetti, come ad esempio:
– la dimensione delle imprese, perché crescere significa attirare le attenzioni della criminalità organizzata e/o del Fisco;
– la libera concorrenza, falsata sia negli appalti pubblici sia in quelli privati;
– gli investimenti di grandi imprese italiane o straniere, frenati dai primi due punti;
– gli incentivi per provarci e per rischiare, latitanti.
Secondo Hernando de Soto compete al diritto salvare l’economia. Dove prevalgono forme di illegalità e di sommerso, l’economia di mercato non riesce a dispiegare i suoi effetti. Quando l’economista peruviano ha scritto “
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