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Dopo la bolla: quanto conta il mercato immobiliare per la ripresa dell’economia
Pubblichiamo un post di Fedele De Novellis, partner ed economista senior di REF Ricerche –
Il dibattito sulle spiegazioni della crisi italiana ha visto sovrapporsi diverse tesi, fra loro a volte anche complementari. Volendo citare solo le principali, alcune pongono al centro dell’attenzione il tema dell’elevato debito pubblico, altre le manovre di risanamento adottate nel corso degli ultimi anni, altre ancora i vincoli derivanti dall’adesione all’euro, altre il basso commitment nella realizzazione di riforme strutturali, soprattutto a favore della concorrenza, che ha caratterizzato la nostra politica economica negli ultimi venti anni.
Rispetto ad altri paesi, nel caso italiano minore enfasi nella spiegazione della crisi è stata posta sul tema della “bolla immobiliare” degli anni duemila, diversamente da quanto invece è emerso in altri casi, soprattutto i paesi anglosassoni o la Spagna.
Se si guarda però alla dimensione quantitativa dei diversi fenomeni, si coglie l’importanza che la crisi dell’immobiliare ha avuto nell’orientare le tendenze della nostra economia nel corso degli ultimi anni. Basti pensare che fra il primo trimestre del 2007 e il quarto del 2016 la nostra domanda finale interna (cioè consumi, spesa pubblica e investimenti) si è contratta dell’8,7 per cento, di cui il 4,7 per cento spiegato dalla caduta degli investimenti in costruzioni e il restante 4 per cento da tutte le altre componenti (i consumi delle famiglie spiegano una contrazione del 2,6 per cento, la spesa pubblica lo 0,4, gli altri investimenti l’1 per cento).
La crisi dell’edilizia a sua volta concorre essa stessa a spigare molti degli effetti sulle altre componenti della domanda. I canali al riguardo sono diversi.
Un primo elemento è quello degli effetti ricchezza. Il legame fra ricchezza immobiliare e consumi delle famiglie è tradizionalmente ritenuto rilevante nella tradizione dei paesi anglosassoni, dato il maggiore grado di indebitamento delle famiglie, e l’utilizzo delle case come collaterale per i prestiti erogati dalle banche, mentre nel caso italiano le famiglie tendono a indebitarsi meno. Ciò non di meno, la dimensione della riduzione della ricchezza abitativa delle famiglie in Italia è stata molto importante. L’ultima stima della Banca d’Italia riferita al 2013 indicava che il valore delle abitazioni possedute dalle famiglie italiane era di poco inferiore ai 5mila miliardi, circa cinque volte il reddito disponibile.
Il punto è che il valore di questo stock ha continuato a contrarsi dopo il 2010. Se si tiene conto della pur bassa inflazione degli ultimi anni si può stimare che in termini reali il patrimonio abitativo delle famiglie italiane abbia subito una perdita di valore di almeno il 15 per cento rispetto ai massimi, pari a più di 800 miliardi di caduta delle ricchezza. Tali ingenti perdite tendono a compensare guadagni ancora più cospicui nel corso della fase di crescita del mercato immobiliare degli anni duemila.
In secondo luogo, se è vero che in Italia il grado di indebitamento delle famiglie è basso rispetto ad altri paesi, non di meno vi sono legami importanti fra credito e mercato immobiliare. Basti qui considerare che la questione, molto importante, dei non performing loans è in buona misura legata proprio al mercato dell’edilizia e ai prestiti contratti dalle società del comparto delle costruzioni.
Terzo, l’attività delle costruzioni ha effetti pervasivi sul mercato del lavoro, visto che la filiera dell’edilizia interessa settori a elevato contenuto di occupazione. Nel solo settore delle costruzioni rispetto all’inizio della crisi si registra una caduta di oltre 500mila occupati misurati in termini di unità di lavoro standard. Tale numero quasi raddoppia se si considera l’intera filiera, compreso l’indotto a valle e monte (produttori di materiali nell’industria, studi di progettazione, agenzie immobiliari, attività bancaria e assicurativa).
Infine, proprio la crisi del mercato immobiliare ha contribuito a depotenziare il canale di trasmissione della politica monetaria. Si spiega cioè la scarsa reattività della nostra domanda interna rispetto alla discesa dei tassi d’interesse degli ultimi anni. Gli investimenti in immobili sono difatti tipicamente una delle componenti della domanda caratterizzate da una maggiore elasticità al livello dei tassi d’interesse; se il canale del credito è intasato da crediti inesigibili legati essi stessi all’edilizia, e se le aspettative sono condizionate sfavorevolmente da un lungo periodo di contrazione dei prezzi delle case, è comprensibile che i tassi bassi non riescano a rilanciare la domanda di abitazioni.
Da questo punto di vista non si può che guardare con particolare attenzione ad alcuni segnali di miglioramento del mercato immobiliare che sono recentemente emersi anche nel nostro paese. Un’inversione di tendenza è segnalata dai dati sulle compravendite di immobili e dai risultati dell’indagine congiunturale della Banca d’Italia sul mercato abitativo. L’auspicio è che il mercato immobiliare tenda a normalizzarsi gradualmente nel corso dei prossimi mesi.
Ne deriva, in ultimo, un suggerimento di policy. Visto che le tendenze del settore immobiliare sono così importanti per l’andamento dell’economia italiana, non converrebbe forse approfittare di questi segnali di miglioramento e pensare a una strategia organica in cui i temi della tutela dei territori, dell’arredo urbano, dell’edilizia pubblica, della dotazione infrastrutturale, vengono posti al centro di una strategia di rilancio del nostro paese? Questi primi timidi germogli di ripresa non possono essere sprecati accettando passivamente le tendenze del mercato e lasciando che tutto si risolva semplicemente in una nuova colata di cemento.
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