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È vero o falso che i taxi italiani sono fra i più cari e che liberalizzare è la salvezza?
Pubblichiamo un post di Claudio Giudici, presidente di Uritaxi Toscana –
Continuano le speculazioni contro i taxi italiani, ancora imperniate su due assiomi (falsi, come si è già in parte dimostrato): 1) i taxi italiani sono cari; 2) la liberalizzazione del settore ne consentirebbe un abbassamento delle tariffe. In assenza di minor pregiudizio, ci si accorgerebbe che i dati recenti di cui si è in possesso, smentiscono entrambi gli assiomi. Come già spiegato, l’unica comparazione seria in materia è quella degli Automobil Club europei, Eurotest – sia per il metodo di rilevazione on road (non teorico) e ripetuto, sia per gli elementi di prezzo analizzati (spaziali, temporali, di supplemento), ed infine per ulteriori aspetti qualitativi a cui comunque in questa precisa sede non siamo interessati -, ma purtroppo è datata 2011.
Diversamente, raccolte dati open source – almeno per quanto riguarda il settore taxi – come quella di numbeo.com, sono assolutamente fuorvianti perché errate e approssimative (vedi qui). Più affidabili dovrebbero invece essere i dati Ubs 2015, a cui il professor Paolo Manasse aveva nel suo primo articolo su Econopoly fatto riferimento. Ma questi, se ben guardati, contraddicono sia gli assiomi ispiratori, sia le conclusioni delle sue tre analisi.
Infatti, come si evince dalla tabella sotto, i taxi italiani si collocano nella fascia medio-bassa di prezzo tra gli Stati dell’Europa occidentale, nonostante i dati Ubs siano drogati dall’inclusione della mancia nel prezzo finale pagato per il taxi; infatti essa, come si sa, se è una sorta di “obbligo consuetudinario” nei paesi di cultura anglosassone, è pressoché assente nei paesi di cultura mediterranea. In ogni caso, sia la ben più affidabile comparazione Eurotest, sia quella Ubs, smentiscono il primo assioma dell’analisi “Manasse”.
Ma è soprattutto in merito al secondo assioma, secondo cui la liberalizzazione del settore taxi porterebbe ad un abbassamento delle tariffe, che un intervento legislativo in tal senso produrrebbe risultati a dir poco drammatici. E questo, sia per gli operatori del settore ma ancor più per il consumatore. Infatti, Amsterdam, Stoccolma e Oslo, città dove il settore, in modi diversi è stato liberalizzato – con una clamorosa retromarcia in Olanda dopo lo scadimento post- liberalizzazione della qualità del servizio e la crescita dei prezzi – hanno tra le tariffe più alte d’Europa (dato confermato sia da Ubs 2015 che da Eurotest 2011).
A tal ultimo riguardo, c’è un’ampia narrativa in materia che, pur non conoscendosi l’opera dei fondatori del Sistema americano di economia politica che in tal senso molti elementi demistificatori offre, smaschera la mitologia liberista filo-imperiale (oggi potremmo dire filo-multinazionale) del funzionario della Compagnia britannica delle Indie Orientali, Adam Smith. Infatti, circa Oslo lo studio di Bankitalia “Occasional paper” n. 24 ci dice: “… dopo la deregolamentazione la locale autorità antitrust ha rilevato un aumento delle tariffe”. Nel manuale La regolazione del trasporto pubblico locale di Christian Iaione, si dice a riguardo delle liberalizzazioni, che avrebbero comportato “un aumento sensibile dei prezzi a Phoenix, San Diego e Seattle” e si conclude dicendo: “…nel complesso, la qualità del servizio risulta peggiorata o non migliorata”.
Ma Stoccolma in particolare, rappresenta un caso di scuola emblematico della natura distruttiva delle liberalizzazioni. Il caso svedese, infatti, dopo la liberalizzazione radicale del settore, portò ad un tale svilimento della qualità e ad una tale crescita dei prezzi – perché per rendere sostenibile l’attività dei tanti taxi giunti sul mercato, con conseguente calo del numero delle corse giornaliere procapite, il prezzo delle singole corse crebbe proporzionalmente – che l’autorità pubblica fu costretta ad istituire improduttive forme di salario minimo per i tassisti, i cui costi hanno finito per gravare sulla contribuzione generale.
Ed il caso Uber rischia davvero di rappresentare una clamorosa illusione ottica. Primariamente, un’app come Uber non è un’innovazione tecnologica sostanziale per il settore, poiché non incide sulla capacità del vettore di trasporto di performare meglio, ma è solo un surrogato esteticamente più gradevole, fra l’altro in possesso dei taxi italiani delle principali città già da prima della fondazione della multinazionale americana (si pensi ad itTaxi presente in oltre cinquanta città italiane, o ad AppTaxi presente in una quindicina di città italiane, o ad altre ancora), proprio come l’sms lo era della chiamata vocale. Non sta qui, infatti, l’appeal consumeristico dell’app americana, ma sul livello dello sfruttamento del lavoro. La multinazionale, infatti, opera sistematicamente sotto costo e in posizione di dumping, così da poter mettere fuori mercato i concorrenti taxi, in quanto gravati da tutta una serie di regole diseconomiche a tutela dell’utenza (primariamente tariffari e prestazionali).
Secondo quanto riportato recentemente anche da Econopoly, la corporation opera talmente sotto costo da far pagare alla propria clientela soltanto il 41% del costo complessivo di trasporto. Non è un caso dunque – e non è facilmente stimabile per quanto ancora possa durare l’appeal di Uber per i venture capital, seppur confidando, come sostiene l’esperto di trasporti Hubert Horan, nella celere conquista del monopolio del settore da parte della loro creatura – che Uber dopo sette anni di operatività registri 4miliardi di dollari di perdite. Ciò rappresenta un costo sia per la sostenibilità economica aziendale che per i lavoratori sottopagati (5,88 sterline orarie lorde per i driver Uber di Londra, come ricostruito dal professor Mostacci della Università Bocconi).
Concludendo, come ben sanno i fruitori abituali di taxi, il vero modo per non spendere troppo è un efficiente sistema di viabilità, fatto di preferenziali per i mezzi pubblici – è troppo chiedere posteggi e metropolitane in uno Stato che consente alle poche aziende pubbliche superstiti di spostare la propria sede fiscale nei paradisi fiscali? Forse sì… – che dunque aumentino il tasso tecnologico dell’infrastruttura di base su cui essi insistono, liberandoli dalla costante trappola del traffico che allunga il tempo di espletamento della corsa.
E’ questa la vera innovazione tecnologica, e non l’app di una multinazionale che laddove manchi la rete 3G non prende, a cospetto di centrali radiotaxi dotate delle più disparate e innovative tecnologie di chiamata e distribuzione delle corse (Gprs digitale, app, sms, Whatsapp, ecc.). E’ dunque sul mai citato, da parte degli “innovatori”, fronte infrastrutturale che si gioca la vera partita dell’efficienza del servizio taxi italiano, e non su patinate e mistificatorie operazioni comunicative volte ad aprire al predaggio delle multinazionali straniere anche questo settore oggi dominato dalla piccola imprenditoria italiana, associata nelle costituzionalmente tutelate e promosse cooperative.
Twitter @claudiogiudici