categoria: Draghi e gnomi
L’Italia, il futuro dell’euro e perché la Germania ha le sue sovrane ragioni
Il tema della rottura della zona euro pare sia tornato di stretta attualità. Mai veramente sparito nel corso degli ultimi anni, gli avvenimenti di queste settimane, dalla lettera del governatore Draghi in cui si faceva riferimento ad alcune conseguenze dell’uscita dalla zona euro, alle dichiarazioni (mal interpretate) della Cancelliera tedesca su possibili diverse velocità di appartenenza alla UE, fino all’incertezza sul risultato delle prossime elezioni in Francia, Olanda e Germania, hanno fatto riapparire il tema dell’uscita dall’euro sui media nazionali ed internazionali. E così, come un film già visto, anche lo spread tra i titoli di Stato decennali dei Paesi periferici ed il Bund tedesco ha ricominciato a muoversi, riprezzando in parte il cosiddetto rischio di convertibilità, il rischio di ridenominazione dei titoli di Stato e dei vari altri contratti nazionali in valuta diversa dall’euro.
Confesso che nel 2012 ritenevo l’uscita dalla moneta unica, se concordata, come il male minore che la nostra economia avrebbe dovuto affrontare. Non ho mai ritenuto l’uscita unilaterale una soluzione praticabile, essendo la nostra posizione estera fortemente sbilanciata verso l’indebitamento a breve termine. Ritenevo però che, con adeguato supporto internazionale, principalmente con linee di liquidità simili a quelle in essere tra le principali banche centrali del mondo, un’uscita coordinata di uno o più Paesi potesse essere una soluzione in grado di provocare minori danni in termini di disoccupazione e caduta dell’output rispetto al processo di aggiustamento interno che invece era già iniziato.
Allora la nostra economia stava già scontando il costo dell’uscita dall’euro nei differenziali di rendimento sui titoli di Stato, ed a cascata sui differenziali di rendimento per il finanziamento dell’intero sistema finanziario e industriale. Stavamo già pagando buona parte del costo dell’uscita dall’euro senza però averne il “beneficio”, se così può esser chiamato, di un aggiustamento molto più rapido del livello di competitività e quindi di minori effetti di isteresi in termini di occupazione e di prodotto interno lordo. Sottovalutavo però un aspetto che per molti versi è risultato decisivo nella tenuta passata (credo anche futura) della moneta unica.
Dicendolo con parole del governatore Draghi, nel famoso discorso del luglio 2012: “Quando le persone parlano della fragilità dell’euro e dell’aumento della fragilità dell’euro, … , sottovalutano l’ammontare di capitale politico che è stato investito nell’euro”.
La dispersione di questo capitale politico è infatti l’elemento che molti, me compreso, hanno sottovalutato parlando di una possibile dissoluzione della zona euro. Un capitale politico che rappresenta il collante delle classi politiche e dirigenti dei Paesi aderenti e che, se non scalfito o rimosso con l’ascesa di formazioni politiche estranee, è in grado di tenere insieme l’eurozona in modo più solido di quanto i singoli parametri o tecnicismi possano fare.
Sono così passati altri quattro anni da quel luglio 2012 senza che molto sia stato fatto per correggere i difetti istituzionali della zona euro, facendo leva sul collante politico piuttosto che su quello economico e finanziario. Le divergenze tra le economie sono rimaste, anche se in parte ridotte, e di conseguenza le voci critiche che vorrebbero una rottura della zona euro mantengono una certa audience.
Quanto c’è però di vero in queste voci critiche alla luce della situazione attuale, quella del 2017? Quanti dei danni legati all’appartenenza alla moneta unica che erano evidenziati nel 2012 sono ancora presenti?
Proviamo ad analizzare i principali due: competitività di prezzo del sistema e tassi d’interesse.
Competitività di prezzo del sistema
Una delle critiche principali mosse all’adesione dell’Italia alla moneta unica è stata quella che essa avrebbe impedito al sistema italiano di recuperare, attraverso il deprezzamento del cambio, i differenziali di competitività che nel tempo si fossero accumulati. Come avvenuto con la crisi del 1992, questo deficit di competitività si sarebbe tradotto in un deficit nei conti esteri e saremmo arrivati ad un punto in cui un attacco speculativo avrebbe forzato l’aggiustamento del livello di competitività rompendo l’unione monetaria e/o costringendo il Governo a riequilibrare i conti con l’estero.
Lasciando da parte le riflessioni su cosa abbia maggiormente inciso nel deterioramento dei conti esteri italiani (l’analisi dei saldi commerciali per aree geografiche dimostra che il deterioramento dei conti esteri non è stato così decisivo verso l’Unione Europea), se guardiamo i semplici dati sulla competitività di prezzo del sistema italiano, espressi nel grafico 1 in maniera sintetica attraverso la misura del tasso di cambio effettivo reale (Real Effective Exchange Rate – REER), possiamo notare come il livello raggiunto alla fine del 2016 sia più basso (quindi più competitivo) di quello precedente l’ingresso nella zona euro. Fatto 100 il valore alla fine del 1997, quando venne fissato irrevocabilmente il tasso di conversione con l’euro, il valore a dicembre 2016 era 94,2 secondo i dati forniti dalla BIS – Banca dei Regolamenti Internazionali – o 98,7 secondo i dati forniti dall’istituto Bruegel.
Grafico 1: Tasso di cambio effettivo reale (REER); indice dicembre 1997=100; elaborazione su dati BIS e Bruegel
La perdita di competitività avvenuta fino al 2009, anche se in livello molto più limitato rispetto a quanto avvenuto negli anni dello SME (1979-1992), è ormai stata completamente riassorbita. Il livello attuale è compreso nella banda di oscillazione che il REER italiano ebbe durante il periodo della “fluttuazione” del cambio, dal 1993 al 1997 (escludendo i mesi a cavallo del 1995, oggetto delle pressioni speculative legate al cambio di politica monetaria USA e conseguente Tequila Shock). Le critiche relative al fatto che l’euro sia per la nostra economia una valuta troppo forte, che non ci permetta di competere sui mercati internazionali o viceversa che non ci permetta di effettuare manovre espansive perché perse in maggiori importazioni sono ormai, se esaminate alla luce dei valori della lira fluttuante, del tutto prive di fondamento.
Tassi d’interesse a breve ed a lungo termine
L’altra principale critica relativa all’adozione della moneta unica riguarda la cosiddetta sovranità nazionale nell’emissione di moneta. Assumendo però l’impostazione che la quantità di moneta sia endogena ad un determinato sistema economico, sia quindi determinata dalla preferenza degli operatori verso le varie forme di investimento e/o liquidità, la sovranità monetaria di un Paese si traduce nella libertà di fissare il tasso d’interesse in base alle proprie esigenze di politica economica interna e non in relazione a condizionamenti esterni.
Ai vari fautori della sovranità monetaria italiana spiacerà sapere che la nostra Banca Centrale, stando ai dati dagli anni Settanta in poi, non è mai stata in grado di influenzare i tassi d’interesse a lungo termine, tantomeno nei periodi di fluttuazione (grafico 2). Negli anni in cui il cambio della lira era libero di muoversi la politica monetaria italiana era essenzialmente subordinata a quella della Federal Reserve americana. Quando il tasso d’interesse italiano era significativamente più basso di quello fissato dalla Federal Reserve (Fed) si verificavano fughe di capitali, deprezzamento del cambio, aumento delle aspettative di inflazione e conseguente necessità di riallineare il tasso d’interesse.
Grafico 2: Tassi reali a 10 anni nel periodo di fluttuazione della lira (Q1-1973; Q4 1978 e Q4-1992; Q4 1996); elaborazione su dati Eurostat, FRED Economic Data e OECD
Negli anni invece di appartenenza allo Sistema Monetario Europeo la relazione con i tassi USA è stata scarsamente significativa. L’esperienza fallimentare dello SME ha evidenziato però, dal punto di vista della politica monetaria, che non era possibile lasciare alla sola Bundesbank il compito di dirigere la politica monetaria dell’intera area economica. Preoccupata molto più delle dinamiche interne piuttosto che di quelle esterne, la politica monetaria condotta dalla Banca Centrale tedesca ha rappresentato uno dei principali fattori di squilibrio interni allo SME. Uno dei fattori che ha concorso a farlo collassare nel 1992.
La creazione di un’area valutaria aveva quindi lo scopo di diluire il peso della Bundesbank nel meccanismo di formazione della politica monetaria dei Paesi aderenti. Il consiglio della BCE prende le decisioni di politica monetaria sulla base delle decisioni dei singoli membri, senza però distinguere in funzione delle dimensioni delle economie che essi rappresentano. Questo scopo di diluizione della componente tedesca nella zona euro è stato negli anni fortemente messo in discussione, sia da parte tedesca (preoccupati del peso ridotto nel consiglio) sia da parte di altri Paesi (che ritenevano la politica della BCE troppo condizionata da interessi tedeschi).
Per verificare quanto ci sia di vero in queste critiche e soprattutto quanto la politica monetaria attuale della Banca Centrale Europea sia difforme da quella che sarebbe opportuno attenderci se fossimo pienamente “sovrani” ho calcolato la Taylor Rule di Banca d’Italia e della Bundesbank mettendola a confronto con il tasso d’interesse overnight della zona euro.
Grafico 3: Taylor Rule di Italia e Germania a confronto nel periodo 1999-2016; dati EUROSTAT e OECD; elaborazioni basate sull’utilizzo della formula di Taylor (1993) r=p+0,5*y+0,5*(p-2)+2 in cui r è il tasso d’interesse obiettivo, p è il tasso d’inflazione core, y è l’output gap misurato come 2*(NAIRU-tasso di disoccupazione)
Il risultato del grafico 3 ci mostra come fino a tutto il 2008 i tassi della zona euro siano stati in linea con quelli richiesti dalle caratteristiche dell’economia tedesca. In alcuni periodi leggermente superiori ma con scarti non così rilevanti. Viceversa, per l’economia italiana tali tassi erano significativamente troppo bassi.
Non è il caso adesso di indagarne le cause per non appesantire ulteriormente la trattazione. Varie ipotesi si possono fare, tra le quali vi è appunto il condizionamento che la componente tedesca possa aver esercitato, oppure il peso che l’economia francese, molto più in sincronia con quella tedesca, abbia esercitato nell’aggregato della zona euro, o semplicemente il fatto che l’economia tedesca abbia in quegli anni avuto performance medie rispetto al complesso della zona euro.
Quale sia stata la ragione di fondo di questa maggior sincronia tra i tassi della zona euro e la Taylor rule tedesca fino al 2008 conta però poco se si esamina la situazione attuale. Come si vede chiaramente, i tassi della zona euro sono adesso molto più in linea con quelli richiesti dall’economia italiana che non quelli dell’economia tedesca. Questa situazione rappresenta un evento singolare se guardiamo alla storia degli ultimi 50 anni.
Grafico 4: Tasso d’interesse overnight e Taylor Rule in Germania (Repubblica Federale Tedesca fino al 1990) dal 1970; dati EUROSTAT, Bundesbank, OECD stat, IMF World Economic Outlook; elaborazioni basate sull’utilizzo della formula di Taylor (1993) r=p+0,5*y+0,5*(p-2)+2 in cui r è il tasso d’interesse obiettivo, p è il tasso d’inflazione core, y è l’output gap misurato come 2*(NAIRU-tasso di disoccupazione)
Come si vede dal grafico 4, complice la crisi della zona euro, negli ultimi 6 anni i tassi si muovono in una direzione non conforme agli interessi dell’economia tedesca. La vera novità non è tanto la perdita della sovranità monetaria italiana, che come abbiamo visto non è mai pienamente esistita, quanto invece la perdita di quella tedesca. Sono così comprensibili gli strali che ormai periodicamente vengono da fonti Bundesbank riguardo l’eccessivo allentamento monetario della BCE.
Alla Germania servirebbe una struttura di tassi molto più restrittiva. Sono invece meno comprensibili le critiche di chi, dall’Italia, accusa la Banca Centrale europea di esser ancora schiava della Bundesbank.
Abbiamo visto come i principali elementi che parevano costituire un freno alla nostra economia legati all’appartenenza alla moneta unica sono molto cambiati nel corso degli ultimi quattro anni. Valutare la convenienza o meno di un’uscita dalla zona euro non può prescindere dall’analisi di quali siano i costi ed i benefici attuali, lasciando invece da parte ciò che è passato.
Pertanto, in conclusione, la domanda che ci si dovrebbe sempre porre è la seguente: siamo sicuri che superati i costi, i rischi, le incertezze conseguenti alla uscita dalla zona euro, riusciremmo ad ottenere delle condizioni di competitività esterna e di tasso d’interesse migliori di quelle in essere?
Attualmente, alla luce dei dati raccolti, pare proprio di no.
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