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L’Italia è la patria dei contratti collettivi di lavoro. E non è detto che sia un bene
Poiché rimane il lavoro il tema principale della riflessione economica contemporanea, è buona prassi dedicare un po’ di tempo a sfogliare la letteratura di genere per individuare elementi che consentano di vedere con maggior chiarezza quanto ci sia di vero nelle allocuzioni di chi predica maggiore flessibilità in cambio di più lavoro o in quelle contrarie, più o meno nostalgiche dei tempi del salario come variabile indipendente.
Alcune informazioni interessanti le ricavo dal bollettino economico pubblicato a gennaio dalla Bce, che ospita un approfondimento dedicato alla questione “Adeguamenti salariali e occupazione in Europa”, che riporta i risultati estratti dall’indagine Wage dynamics network (WDN), un consesso di ricercatori formato da economisti della Bce e delle banche centrali nazionali.
L’indagine, che fa riferimento al periodo 2010-13, si propone di verificare a livello microeconomico le risultanze di alcune ricerche macroeconomiche secondo le quali gli aspetti istituzionali – tipicamente la contrattazione collettiva – che influiscono sui livelli salariali sono usualmente associati a rigidità (delle retribuzioni) verso il basso. Il risultato è che, in caso di crisi, la disoccupazione può peggiorare drasticamente. L’indagine del WDN, estendosi al livello micro, fa riferimento, a livello di singola impresa, alle condizioni economiche e agli accordi retributivi in 25 stati membri dell’Ue, nel periodo peggiore della crisi del debito sovrano.
La prima risultanza che merita attenzione è che la crisi non è stata uguale per tutte le imprese. “Il 44 per cento delle imprese – spiega la Bce – ha registrato una diminuzione della domanda, mentre il 32 per cento ha dichiarato che la domanda è aumentata”. Come era prevedibile “la quota di imprese che ha ridotto i posti di lavoro o i salari è significativamente superiore fra le aziende per le quali la domanda si è ridotta: il 43 per cento di queste imprese ha ridotto il personale e il 14 per cento i salari di base”.
Da ciò – ossia dalla minore percentuale di cali salariali rispetto alla perdita di posti di lavoro – la Bce deduce che esistano rigidità verso il basso delle retribuzioni: “Un quarto delle imprese interpellate dichiaravano di aver congelato i salari nominali”. “I congelamenti salariali rappresentano un chiaro indizio di rigidità al ribasso – sottolinea la Bce -, poiché segnalano che, anche quando le condizioni economiche lo giustificherebbero, le imprese si astengono dall’abbassare i salari per evitare eventuali tensioni”. In questo quadro, “gli accordi di retribuzione collettiva ricoprono un ruolo di primo piano”.
La seconda informazione interessante è che “la quota di lavoratori interessati
da un accordo di retribuzione collettiva nei paesi dell’area dell’euro, pari in media a
quasi il 75 per cento, è molto più elevata di quella dei paesi esterni all’area dell’euro, pari a quasi il 30 per cento”. Alcuni paesi dell’eurozona – Italia, Francia, Spagna, Belgio e Paesi Bassi, sono sopra la media dell’area. L’Italia, in particolare, è il paese (vedi grafico) che mostra il livello più elevato in Europa di lavoratori interessati a contrattazione collettiva, che sfiora il 100%. All’estremo opposto ci sta l’Irlanda con meno del 10%.
Questo cosa comporta? “La contrattazione collettiva riduce la probabilità di adeguamenti al ribasso dei salari. Quanto più elevata è presso l’impresa la quota di dipendenti interessati da accordi di retribuzione collettivi, tanto minore è la probabilità di una riduzione dei salari e tanto maggiore quella di un loro aumento”, oltre al fatto che “nei paesi dove la quota di lavoratori interessati da accordi di retribuzione collettivi è più elevata le rigidità al ribasso dei salari nominali sono maggiori”. La Bce, tuttavia, ricorda che altri fattori possono concorrere alle rigidità salariali, non ultima la circostanza che i datori di lavoro possano temere le conseguenze negative di un taglio delle retribuzioni sulla motivazione dei dipendenti e sulla loro produttività.
Le stime econometriche, però, ci dicono anche altro. A cominciare dal fatto che “le rigidità dei salari producono un effetto negativo sull’occupazione”, argomentazione familiare ai giorni nostri come quella secondo cui “le probabilità di un aumento dell’occupazione è maggiore quando i salari diminuiscono”. Ciò implica anche il contrario, ossia che “in caso di aumento dei salari cresce la probabilità di un calo dell’occupazione”.
Da ciò la Bce deduce che “le rigidità salariali in Europa durante il periodo 2010-13 si sono associate a un andamento più negativo dell’occupazione”. In parte ciò è dovuto agli accordi collettivi – e il caso italiano in tal senso è una situazione di maggior rischio – e poi al fatto che è assai più probabile che i salari aumentino in caso di un aumento della domanda piuttosto che diminuiscano in caso di un suo calo. “I risultati – sottolinea – evidenziano un effetto negativo delle rigidità al ribasso dei salari sull’occupazione a livello di singola impresa”.
La Bce, ricordando che la contrattazione collettiva “sembra contribuire
alle rigidità verso il basso dei salari” e che queste ultime possono esacerbare la perdita di posti di lavoro durante le recessioni, evidenzia che durante la crisi alcuni paesi hanno riformato i mercati del lavoro per promuovere gli accordi salariali a livello di impresa piuttosto che di categoria. “Altri risultati dell’indagine – conclude – mostrano che riforme analoghe della contrattazione collettiva hanno consentito alle imprese di adeguare più facilmente le retribuzioni. Di conseguenza, l’attuazione di ulteriori riforme in tal senso ha il potenziale di portare beneficio ai paesi dell’area dell’euro ed eventualmente limitare la perdita di posti di lavoro durante le recessioni future”.
La qualcosa è molto facile da dire, a prescindere dalla circostanza che sia vera o no. Ma è molto difficile da fare. E non è indolore.
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