categoria: Draghi e gnomi
La vigilanza bancaria europea va potenziata, non contrastata
Il fallimento dell’aumento di capitale di MPS è stata una nuova occasione per il Governo italiano di entrare in polemica con le autorità europee, in questo caso con la supervisione bancaria affidata alla BCE. La questione riguarda l’ammontare dell’iniezione di capitale richiesta: dai 5 miliardi di euro previsti per il piano di mercato recentemente naufragato si è passati a 8,8 miliardi per l’intervento diretto dello Stato. Quale causa della “lievitazione” delle risorse necessarie a mettere in sicurezza MPS non bisognerebbe però indicare un complotto anti-italiano. L’operazione di mercato prevedeva infatti la pulizia pressoché totale dei crediti dubbi attraverso l’intervento del fondo Atlante, ad un prezzo di acquisto a quanto pare molto generoso se dopo l’intervento pubblico Atlante non sembra più interessato a fare parte del piano di salvataggio. Con il piano originario sarebbe poi rimasto in essere una parte del cuscinetto fornito dai bond subordinati. Questi titoli sono infatti utili nel caso in cui la situazione degeneri e da una ricapitalizzazione preventiva si dovesse passare ad una vera e propria risoluzione. Infine, il ritardo nell’attuare il piano di salvataggio straordinario ha fatto evaporare nel frattempo svariati miliardi di euro di depositi bancari, rendendo la situazione finanziaria, oltre a quella patrimoniale, meno stabile.
Queste polemiche appaiono quindi sterili, come sterili erano le critiche sollevate sulla direttiva europea sulle risoluzioni bancarie (BRRD). Fino a pochi mesi fa Governo e industria bancaria sostenevano che la BRRD era un fattore di destabilizzazione finanziaria. Messe alla prova, però, le regole europee hanno invece dimostrato che esiste una flessibilità sufficiente per far fronte al materializzarsi di eventuali rischi sistemici, come il potenziale dissesto della terza banca del paese avrebbe potuto mettere in moto.
La vigilanza della BCE, piuttosto che contrastata, andrebbe ulteriormente potenziata, allargandola anche alle banche di minore dimensione. L’esperienza recente ci ha insegnato, infatti, che i vigilanti nazionali tendono inevitabilmente a sottovalutare i rischi finanziari domestici. È successo in Francia, Olanda, Belgio e, ancor più, in Irlanda, dove alcuni istituti sono cresciuti oltre misura. È accaduto in Spagna, dove non ci si è resi conto dello sviluppo di un’immensa bolla speculativa sul mercato immobiliare. Si è verificato nell’efficientissima Germania, dove la Bundesbank non ha evitato che le Landesbank gonfiassero i loro bilanci con titoli spazzatura, come i titoli cartolarizzati con sottostante mutui subprime americani.
L’Italia non è stata da meno. Concentrandosi solo sul caso più recente, si è concesso prima a MPS di acquisire Banca Antonveneta, con un esborso di 9 miliardi di euro, casualmente la stessa cifra richiesta per l’ultimo aumento di capitale. Tale acquisizione è avvenuta nel novembre del 2007, quando già negli Stati Uniti vi erano stati chiari segnali che l’impianto finanziario internazionale era tutt’altro che stabile (la crisi dello shadow banking system, e dei mutui subprime, inizia nell’agosto dello stesso anno). La volontà di riportare sotto il controllo italiano la banca veneta, precedentemente in mano alla spagnola Santander, ha probabilmente giocato un ruolo chiave. Discutibile è stata anche la scelta di concedere alla Fondazione MPS la possibilità di indebitarsi, nel 2011, per partecipare al primo aumento di capitale, in questo caso per difendere la “senesità” di MPS. A presiedere la Banca d’Italia allora era Mario Draghi, a evidenza del fatto che anche vigilanti bancari di grande reputazione tendono a concedere troppo spazio di manovra ai manager bancari domestici. In definitiva, il Governo dovrebbe guardare alla vigilanza europea come ad un alleato in quanto l’obiettivo è comune, ovvero risolvere i problemi che attanagliano da diversi anni il sistema bancario nazionale.
Va in primis risolta la questione delle sofferenze bancarie, che iniziative come la Commissione d’inchiesta parlamentare o la pubblicazione dei 100 principali debitori insolventi delle banche salvate con fondi pubblici non servirebbero ad affrontare, così come poco efficaci sono state le GACS e il fondo Atlante (si veda Barucci e Milani, 2016). Il problema si è oramai incancrenito al punto tale da non poter escludere anche l’esigenza di un ricorso al fondo salva Stati (ESM) per finanziare interventi straordinari, come la creazione di una bad bank di sistema. Quando il QE (quantitative easing), ovvero l’acquisto di titoli di Stato dei paesi dell’Eurozona da parte della BCE, si concluderà potrebbe essere necessario anche attivare le Outright Monetary Transactions (OMT). Le OMT prevedono la sottoscrizione mirata di titoli governativi condizionata però ad un programma d’interventi sulla finanza pubblica e sulle riforme strutturali concordato con l’ESM.
A spingerci verso questa strada potrebbero essere anche le valutazioni della Commissione Europea sullo stato dei conti pubblici che verranno presentate nella prossima primavera. Se infatti dalla Commissione dovesse arrivare una bocciatura dei nostri conti, evenienza non escludibile visti i dubbi intrepretativi sui margini di flessibilità sul Fiscal Compact, ci ritroveremmo nella stessa situazione del 2011. Potrebbe tornare cioè a stringersi l’ ”abbraccio mortale” tra banche e Stato: lo Stato si indebita per sostenere le banche, come per il recente piano da 20 miliardi di euro; ciò peggiora la stato dei conti pubblici e lo scetticismo dei mercati finanziari sulla sua sostenibilità (anche alla luce dell’esaurirsi del QE); i tassi d’interesse tendono a salire producendo delle perdite sull’ingente portafoglio di titoli di Stato detenuti dalle banche italiane (circa 380 miliardi di euro a novembre 2016), richiedendo quindi ulteriori interventi di messa in sicurezza dell’industria bancaria. La strada maestra per evitare che questo circolo vizioso si materializzi è rafforzare il ruolo delle istituzioni europee, non certo indebolirlo.
Twitter @MilaniC