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Il testamento di Caprotti e “questo Paese cattolico” che “non tollera il successo”
Nessuno è tanto ricco da potersi ricomprare il passato (Oscar Wilde, cit.)
Il testamento di Bernardo Caprotti, formidabile imprenditore, scomparso settimana scorsa, è tutto da leggere, perché rappresenta il pensiero di un uomo di successo, che al termine di una vita intensissima, prende congedo dal mondo, dalla famiglia, dagli affetti, dalla sua amata Esselunga.
Caprotti, che ha avuto in vita dei terribili scontri familiari che i figli di primo letto – Giuseppe e Violetta – è riuscito a combinare il disposto della successione – che prevede che a moglie e figli vada almeno il 75% del patrimonio complessivo – e il controllo dell’impresa Supermarket Italiani S.p.A. (la holding che controlla Esselunga). In questo modo la figlia Marina Sylvia e la seconda moglie Giuliana Albera ereditano il 70% di Esselunga, senza che il controllo della più grande catena di supermercati tricolore venga messo in discussione.
Il fondatore di Esselunga, consapevole che “Famiglia non ci sarà”, “auspica veramente che non ci siano ulteriori contrasti e pretese. Che ognuno possa starsene in pace nei propri ambiti”.
Caprotti ha dimostrato estrema lucidità pensando a tutelare l’impresa, che deve essere considerato un soggetto ben diverso, separato dalla famiglia. “Le aziende non verranno dilaniate” dalle lotte e dai litigi, così ha lasciato scritto nel testamento, aggiungendo: “Dopo tante incomprensioni e amarezze ho preso una decisione di fondo per il bene di tutti, in primis le diecine di migliaia di persone i cui destini dipendono da noi”. Per i veri imprenditori non sono rilevanti solo gli azionisti, ma tutti i portatori di interessi verso l’impresa – i cosiddetti stakeholder. Quante volte, penso ai Rizzoli o ai Mondadori, le imprese sono state danneggiate dalle lotte successorie.
Nella parte finale del testamento Caprotti scrive il capitolo chiave: “Il futuro di Esselunga”. E si lascia andare, senza mezze misure: “Sto dotando l’azienda di un management di qualità. È diventata ‘attrattiva’. Con Tornatore (Giuseppe, il regista premio Oscar che firmò il corto “Il Mago di Esselunga”, ndr) lo è diventata di più. Però è a rischio. È troppo pesante condurla, pesantissimo ‘possederla’, questo Paese cattolico non tollera il successo. Occorre trovarle, quando i pessimi tempi italiani fossero migliorati, una collocazione internazionale. Ahold (colosso distributivo olandese, ndr) sarebbe ideale. Mercadona (gruppo spagnolo, ndr) no. Attenzione: privata, italiana, soggetta ad attacchi, può diventare Coop. Questo non deve succedere”.
Caprotti si sfoga. Spesso osteggiato per la sua determinazione, per il suo atteggiamento duro verso i sindacati – che spesso tutelano i nullafacenti, invece di tutelare i giovani e chi è fuori dal mondo del lavoro -, invita gli eredi a non mollare Esselunga alle Cooperative, rosse o bianche che siano. Avendo letto “Falce e Carrello”, pamphlet di Caprotti contro le Coop, questa non è una novità. Lo è invece il pensiero che lasciare la società privata è un rischio. Sembra quindi leggersi la volontà di quotare Esselunga, ossia rendere la società “public”, aperta a nuovi investitori, con un azionista “virile” (definizione coniata da Bruno Visentini), indicato negli olandesi di Ahold.
Sono molte le società italiane familiari che sono riuscite a mantenere il controllo, pur quotandosi in borsa. E sono casi di successo. Recordati, Brembo, Campari, Amplifon, Sol, Danieli sono saldamente in mano alle rispettive famiglie – sobrie e capaci, seguendo il principio che l’impresa ben gestita (anche da un manager esterno, perché no) può distribuire parte degli utili sotto forma di dividendi, che consentono ai diversi membri della famiglia di vivere in modo più che agiato.
I private equity con cui Caprotti era in negoziazione avrebbero – nel caso si fosse fatto in tempo a firmare il contratto di cessione – certamente traghettato Esselunga in borsa. Ed è proprio la quotazione che consente – tramite acquisizioni carta contro carta – di crescere per linee esterne.
“Questo Paese cattolico non tollera il successo”. Quanto è vero ciò che sostiene l’imprenditore brianzolo. Mentre nel mondo anglosassone se crei un’impresa profittevole sei considerato legittimamente dalla società come colui che ha dato lavoro a migliaia di famiglie, che ha arricchito la nazione, contribuendo con le imposte pagate a far funzionare la macchina dello Stato. In Italia non abbiamo evidentemente letto né assimilato Max Weber.
La cultura cattolica, combinata con la cultura comunista, considera l’uomo di successo un “trafficone”, che ha battuto i concorrenti magari con metodi ortodossi (il sospetto c’è sempre), fino a diventare ricco. Per cui colui che ce la fa, che ha successo mondano, si nasconde, sta in silenzio, non si vanta, per paura di essere attaccato. Siamo ben lontani dall’immaginario collettivo americano così descritto da Barack Obama, a un mese dalle elezioni: “Noi non invidiamo il successo, aspiriamo a raggiungerlo e ammiriamo chi lo ottiene. Come diceva Abramo Lincoln, “non proponiamo la guerra al capitale, ma vogliamo consentire al più umile degli uomini le stesse possibilità di arricchirsi di chiunque altro”.
Peraltro Caprotti con i preti non è riuscito a intendersi. In un altro passaggio del testamento si legge: “Avendo donato alla Pinacoteca Ambrosiana un dipinto di scuola leonardesca di possibile grande interesse ed ingente valore ed avendo da ciò ottenuto un’esperienza molto negativa, fino al dileggio da parte degli studiosi ed esperti dell’istituzione medesima, segnatamente Monsignor Buzzi (presidente dell’Accademia Ambrosiana, ndr) e tale Marani (tale non è, infatti il prof. Pietro C. Marani, storico dell’arte, è ritenuto uno dei maggiori esperti al mondo di Leonardo, ndr), cancello le donazioni previste alla Galleria di Arte Moderna della città di Milano”.
Comprato da Caprotti a un’asta di Sotheby’s a New York nel gennaio 2007 per 655.000 dollari, la “Testa di Cristo” venne attribuita da Marani a Salaino (nome di battesimo Gian Giacomo Caprotti!, garzone e poi allievo nella bottega di Leonardo), facendo infuriare il patron di Esselunga, che aspirava ad una attribuzione leonardesca.
Il paradosso dell’affermazione di Caprotti sta nel fatto che il testamento pubblico è stato redatto dallo studio di Piergaetano Marchetti, professionista di valore, “cresciuto a pane e senso del dovere”, un’autorità, che però da studente universitario era stato soprannominato “Cingolino” perché a favore dell’invasione dell’Ungheria da parte dei russi, nel 1956.
Nel suo recente “Abbiamo quaranta fucili Compagno Colonnello” (Edizioni e/o, 2016), Sandor Kopacsi – questore di Budapest nei cinque giorni della rivolta – scrive: “Le unità blindate russe, in risposta alle bottiglie molotov, distruggevano sistematicamente i palazzi da cui erano partiti i colpi. File di case, dietro alle quali i russi pensavano di scovare gruppi d’insorti, furono rasate al suolo. Centinaia di palazzi furono così distrutti, soprattutto nei quartieri operai, centro degli insorti”.
P.S.: Bernardo Caprotti ha dato un contributo economico rilevante per l’apertura del Memoriale della Shoah di Milano, a fianco della Stazione Centrale, al Binario 21. Andateci, quando trovate il tempo. Come consiglia Liliana Segre, magari, con la benemerita associazione milanese Città Nascosta.
Twitter @beniapiccone