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I fondi pensione, il private equity, la spinta che serve all’economia reale
Spesso si sentono espressioni quali “oggi tutto è connesso”, oppure, “siamo nell’era della globalizzazione”. Ebbene, sia che guardiamo ai social network, che ci tengono costantemente online, sia che consideriamo le dinamiche di geopolitica, difficilmente potremmo obiettare a quanto si sente. Anche per i mercati finanziari vale altrettanto, forse in misura accentuata. Gli economisti tendono a voler descrivere tutto quello che succede nel mondo in un modello di economia, più o meno sofisticato, che rappresenta l’universo nel quale gli individui interagiscono, con un alto coefficiente di interazione.
L’economia, sappiamo, si muove perché è spinta dai bisogni degli individui. Ma, a questo punto è lecito domandarsi: quali sono i principali bisogni degli individui? Principalmente due:
1 – assicurarsi una produzione di reddito nell’età lavorativa;
2 – assicurarsi un reddito nell’età della quiescienza.
Un’economia che funziona riesce a produrre opportunità per soddisfare entrambi i bisogni. Ma per funzionare correttamente è necessario che settore privato (sistema finanziario con risparmi ed investimenti, anche dall’estero) e settore pubblico (con infrastrutture e regolamentazione) funzionino in maniera sincrona, come un orologio.
Queste premesse ci sono utili per orientarci nel complesso mondo dell’economia ma anche per individuare proprio quelle aree da mettere più in luce. Difatti l’impressione, ampiamente condivisa, è che tali settori – sia pubblico sia privato – non stiano ottimizzando al meglio l’utilizzo delle risorse.
Gli ingranaggi trascurati
Tralasciamo per brevità il settore pubblico, e focalizziamoci ora sul settore privato dove alcuni ingranaggi risultano trascurati o talvolta ignorati. Il private equity (“PE”), ad esempio, spesso rappresentato come un mondo a sé, risulta invece un importante ingranaggio proprio di questo meccanismo. Attualmente il private equity appare sottovalutato, come hanno fatto notare importanti operatori del settore.
Ciò che emerge dal dibattito in corso è che il private equity viene sempre annoverato tra gli “investimenti alternativi” mentre, in realtà, effettua investimenti propriamente tradizionali: PMI italiane, aziende tecnologiche (start-up), energie rinnovabili. L’economia reale, insomma.
Gli investimenti nelle PMI italiane rappresentano non solo un’opportunità in termini di creazione di rendimenti superiori: generano infatti anche un effetto positivo in termini di supporto alla crescita del Paese, condizione necessaria per riuscire a soddisfare il bisogno (1), con l’aumento dei redditi pro-capite e l’aumento dei posti di lavoro.
La possibilità di soddisfare il bisogno (2), dipende (o meglio, è “interconnessa”) sia da quanto è stato soddisfatto il bisogno (1) – il risparmio previdenziale dipende dal livello di reddito nell’età lavorativa – sia dall’efficienza ed efficacia degli investitori Istituzionali. L’obiettivo primario di questi ultimi deve essere il miglioramento delle performance, con un contenimento del rischio e della volatilità.
Nel nostro Paese diversi investitori istituzionali, prima le Casse previdenziali, poi i fondi pre-esistenti ed ora anche i Fondi Pensione Negoziali, si stanno affacciando agli “alternativi” come il Private Equity.
La dipendenza dalle banche e il rischio Paese
Le PMI italiane sono di ottima qualità, con numerose eccellenze ma con troppa dipendenza dal settore bancario, che in situazioni di credit crunch, come osservato negli ultimi anni, ne può minare la sopravvivenza. Naturalmente, un notevole beneficio, per entrambi i bisogni menzionati prima, deriverebbe dal flusso di investimenti dall’estero sulle nostre PMI, nel settore del private equity appunto.
Gli investitori istituzionali all’estero avvertono un più elevato rischio Paese Italia, a maggior ragione post-Brexit, difatti pochi puntano sugli investimenti in Italia a meno di un consolidamento riconosciuto sul brand e con forti garanzie magari sul versante sindacale. Ma il problema principale è ascrivibile al fatto che non ci credono neppure gli italiani stessi. A partire dalle allocazioni degli istituzionali italiani spesso troppo orientate a gestioni di tipo generalista. Mentre all’estero gli investitori istituzionali hanno destinato in media un 10-15% dei propri attivi agli investimenti “alternativi”, gli istituzionali italiani si attestano ad oggi ad un 2-3% di allocazione.
I fondi pensione italiani hanno avviato la gestione del monte risparmi per la previdenza complementare istituendo solitamente grandi mandati di gestione chiamati “bilanciatoni” dagli addetti ai lavori, in quanto presentavano tipicamente un’allocazione data da un 70% in obbligazioni mondo ed un 30% in azioni mondo; come dire, difficile prevederne la direzione. Tale impostazione trovava giustificazione in una prima fase di lancio della previdenza complementare, nei primi anni 2000, caratterizzata da un accumulo delle masse in gestione. Oggi, dato il livello di maturità raggiunto dagli istituzionali, affidarsi esclusivamente ad un “bilanciatone” appare piuttosto come una scelta, forte, di affidarsi agli andamenti della volatilità dei mercati globali senza aver preso particolari decisioni di investimento; un rischio che spesso non trova remunerazione nei rendimenti raggiunti.
Ricordiamo che l’obiettivo finale della previdenza complementare è quello di colmare il gap previdenziale latente nel nostro Paese. Una delle soluzioni concrete consiste nell’ampliare gli investimenti possibili, ad esempio nelle “classi alternative” come il private equity. Con quest’ultimo, come detto, avremmo anche una “esternalità positiva”, ossia un contributo allo sviluppo e crescita del tessuto produttivo delle PMI del nostro Paese.
Perché si fatica a centrare l’obiettivo crescita?
Non è solamente un tema di conoscenza di strumenti e di asset class (alternative) a disposizione degli istituzionali, ci sono anche altre ragioni.
In sintesi, è possibile individuare tre principali motivi per cui gli investitori istituzionali non investono nell’economia reale:
1 – Livelli di fee richiesti dai gestori.
La tematica delle commissioni di gestione è una vecchia questione, i fondi pensione da sempre sono particolarmente attenti, giustamente, alla remunerazione riconosciuta ai gestori: le fee per i mandati bilanciati, prima richiamati, risultano ampiamente inferiori a quelle mediamente registrate per i fondi di private equity. A tal proposito, però, si deve ragionare sull’opportunità di pagare un maggior premio per ottenere una qualità superiore dei risultati. Indubbiamente il track-record e la qualità del team di investimento ha una rilevanza superiore in un contesto di investimenti di private equity rispetto a grosse fabbriche di prodotti di investimento quotato. In effetti, che valore può esserci in una gestione fortemente incollata al proprio “benchmark” come le gestioni passive (o simili ad ETF)?
2 – Fondi pensione tipicamente abituati ad una gestione a benchmark.
La scarsa dimestichezza con prodotti tipo “total return” e con indicatori e statistiche differenti dalle gestioni tipo “bilanciatone” comportano uno sforzo maggiore per gli istituzionali chiamati a ragionare in schemi “alternativi” appunto, dove tutto si sintetizza nell’indicazione della sovra o sotto-performance rispetto al proprio benchmark. Il private equity, invece, si presenta come un tipico strumento “total return” senza un particolare benchmark associato. Tuttavia, presenta quasi sempre l’indicazione di un rendimento target, chiamato hurdle rate, che permette di confrontarlo con i propri obiettivi di investimento. Nelle valutazioni di questa tipologia di strumenti si introducono altri indicatori che vanno guardati più considerando l’holding period (l’intero periodo) di tutto l’investimento piuttosto che un momento preciso; tali indicatori sono tipicamente dati dall’IRR (internal rate of return) e dal valore totale raggiunto dal fondo (misurato dall’indicatore TVPI, total value paid-in) così come dalla serie di distribuzioni (come se fossero cedole) effettuate agli investitori.
3. Non piena padronanza della tipologia dei rischi di un investimento alternativo.
Gli investimenti alternativi, continuando l’esempio degli investimenti in private equity, tipicamente hanno una valorizzazione (fanno la quota) semestrale, in alcuni casi trimestrale, a differenza dei prodotti come il “bilanciatone” che quotano giornalmente. Sebbene la nozione di rischio dell’investimento, dato dalla possibilità di perdita del capitale e non raggiungimento del target di rendimento, sia comune a qualunque tipo di investimento, la misurazione e valutazione dei rischi richiede probabilmente una maggiore apertura di vedute.
Mentre per il bilanciatone possiamo misurare una volatilità, anche giornaliera, delle quotazioni e costruire misure di VaR (value-at-risk), con il PE difficilmente si possono applicare le tecniche di volatilità. Misure come quelle citate prima, IRR e TVPI, analizzate in un contesto di peer-group (gruppo di gestori omogeneo per caratteristiche dell’investimento), consentono, magari con il supporto di un advisor, di effettuare investimenti con la consapevolezza e tranquillità di allocare una percentuale del 10-15% degli attivi (come succede in Europa) in quanto si sono effettuate considerazioni di rischio rendimento di medio-lungo periodo, che risultano peraltro coerenti con la duration delle liabilities (impegni futuri per il pagamento delle pensioni) degli istituzionali previdenziali.
La creazione di moneta è un mezzo non un fine
Infine, l’interconnessione, come si diceva all’inizio, risulta importante anche tra il settore pubblico ed il settore privato. Prima fra tutte la necessità di individuare incentivi, riconosciuti appunto dal settore pubblico, per favorire il risparmio finalizzato all’investimento produttivo, ossia all’economia reale, ricordando che per la robusta crescita di un Paese, la creazione di moneta è un mezzo non un fine.
Twitter @pasqualemerella