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Le prove Invalsi e i ritardi del Sud
I risultati delle prove INVALSI per l’anno accademico 2015/2016, presentati il 7 luglio, rappresentano un’occasione per riprendere il filone di idee e pensieri sul Mezzogiorno avviato su Econopoly.
Sin dalle prime notizie di stampa collegate alla pubblicazione del Rapporto Risultati, sono emerse alcune cattive performance degli studenti meridionali a livello di prestazioni e di irregolarità commesse durante lo svolgimento delle prove (il fenomeno del “cheating”). Ma procediamo con ordine, dando priorità ai dati.
I ritardi degli studenti meridionali
Le prove, di italiano e matematica, hanno interessato gli studenti di II e V elementare (scuola primaria), di III media (scuola secondaria di primo grado) e di II superiore (scuola secondaria di secondo grado). Il quadro presenta forti differenze territoriali in termini di risultati e di “anomalie”. Quest’ultime si riscontrano soprattutto nella terze medie, dove non è presente l’osservatore esterno (teacher cheating), e nelle regioni di Campania, Calabria e Sicilia. Altre anomalie si riscontrano nei risultati calabresi di II elementare, che hanno reso necessaria l’applicazione di metodi correttivi per il cheating, e nelle prove di matematica di V elementare in tutte le regioni.
Nel capitolo IV sono indicati i risultati del rapporto. Si parte dalla seconda elementare, dove la Calabria, nella prova di italiano, registra la performance peggiore (punteggio corretto per le anomalie riscontrate). Sotto la media nazionale anche Puglia, Sicilia e Sardegna. La Calabria ha lo score peggiore anche nella prova di matematica, insieme a Puglia e Sicilia. Per quanto concerne il test di V elementare, nella prova di italiano è la Sicilia a far registrare un risultato significativamente inferiore a quello della media nazionale, mentre nel test di matematica è ancora la Calabria ad avere il punteggio più basso (al di sotto della media nazionale insieme a Campania e Sicilia).
I punteggi della terza media invece, hanno richiesto un correttivo a causa delle anomalie evidenziate (cheating-teacher cheating). Nella prova di italiano, gli studenti di Campania, Calabria e Sicilia hanno ottenuto risultati al di sotto della media nazionale (Calabria ultima, distante di 31 punti da Trento). Calabria ultima anche nella prova di matematica, con una distanza di 38 punti da Trento, Umbria e Marche, e sotto la media nazionale insieme a Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Sicilia e Sardegna. Muovendo ai risultati della seconda superiore, nella prova di italiano è la Basilicata ad avere il punteggio peggiore, mentre in quella di matematica il risultato più basso è quello della Sardegna. In ambedue le prove, tutte le regioni del Mezzogiorno sono sotto la media nazionale.
In definitiva, il raggruppamento “Sud” (Abruzzo, Molise, Campania e Puglia) è pari o sopra la media nazionale solo nelle prove di seconda elementare, mentre il gruppo “Sud e Isole” (Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna) è sempre al di sotto e registra risultati peggiori rispetto al primo.
Ripartire dalla scelta
Si legge nella sintesi che «nel Mezzogiorno la variabilità dei risultati tra scuole e tra classi è molto elevata, anche nel primo ciclo d’istruzione, con un impatto preoccupante sull’equità del sistema educativo di queste aree del Paese. Questa differenza si riflette anche in termini di efficacia delle scuole. Infatti, nel Mezzogiorno risulta molto più elevata la quota di scuole che ottengono risultati più bassi dell’atteso, anche quando dall’analisi si elimina il peso delle variabili esogene sulle quali la singola scuola non può intervenire».
Il primo passo da compiere (non scontato) sarebbe quello di ammettere l’esistenza di un grosso problema, che comporta conseguenze estremamente negative sul territorio considerato, le quali si aggraveranno a causa di un mondo che richiede sempre maggiori e specifiche qualità e competenze piuttosto che un mero titolo di studio.
Il secondo passo (molto più complesso) dovrebbe riguardare i miglioramenti da apportare al sistema, in un comparto ancora altamente ideologizzato. Le richieste dal mondo scuola riguardano (quasi) sempre la questione dei fondi pubblici stanziati, ritenuti insufficienti a causa anche delle revisioni di spesa degli ultimi anni. Si può convenire sulla sussistenza della questione (la spesa per le pensioni, in percentuale del PIL, è maggiore rispetto a quella per l’istruzione), ma non può essere unicamente una questione di soldi, viste le differenze all’interno del Paese.
L’argomento è sicuramente complesso (segnalo un’altra lettura interessante sul tema), ma probabilmente anche qualche semplice idea potrebbe consentire dei miglioramenti, seppur piccoli e certamente non risolutivi.
Una proposta, per alcuni versi provocatoria, sarebbe quella di aumentare la possibilità di scelta effettiva (lato domanda) e di concorrenza (lato offerta). La possibilità di compiere un’effettiva scelta al momento dell’iscrizione ad un istituto scolastico o universitario è (pienamente) garantita solo ai ragazzi appartenenti a famiglie agiate (fenomeno alleviato dalle borse di studio), mentre la concorrenza si intravede solo (minimamente) a livello universitario. Per le fasi precedenti continua – per ovvie ragioni economiche e logistiche – la prevalenza del criterio del vicinato.
Già su questi pixel Giacomo Lev Mannheimer ha richiamato alcuni concetti espressi da Milton Friedman, proprio sull’importanza di garantire la possibilità di scegliere e sull’idea dei voucher. Un concetto semplice da comprendere, ma con un messaggio rivoluzionario, in quanto richiederebbe una sorta di stravolgimento del sistema scolastico attuale. Ma si può pensare anche ad altre varianti.
Soprattutto in America sono stati diversi i tentativi di aumentare il potere di scelta in fatto di scuola. Nel 2001 ci provò George W. Bush, con il programma “No Child Left Behind” (NCLB), basato su test di lettura e matematica per gli studenti di scuola primaria e secondaria verificabili attraverso un “Adequate yearly progress” (AYP), con conseguenze penalizzanti per le scuole non in linea con i target prefissati. Il programma ha sollevato molte criticità, senza produrre i risultati attesi (troppo ambiziosi). Ecco perché l’amministrazione Obama ha deciso recentemente di cambiare rotta. Secondo Thaler e Sunstein [1] una delle cause del fallimento può essere stato il cosiddetto “friendly discouragement”, verificatosi ad esempio a Worcester (Massachusetts), dove il sistema scolastico iniziò a cercare di persuadere i genitori sulle criticità del NCLB, sulla validità dei test o sulle difficoltà del processo di cambiamento. Come risultato, dopo sei mesi solo uno studente decise di cambiare scuola e solo due usufruirono del servizio di istruzione supplementare.
Secondo gli autori citati, un altro problema importante al momento della scelta risiede nella complessità dei materiali utilizzati per l’orientamento scolastico, letti probabilmente solo dai genitori più eruditi. Un esperimento ha dimostrato che i genitori meno abbienti prestano meno attenzione alla qualità dell’istruzione rispetto a quelli più ricchi, finendo per “accontentarsi” delle opzioni di default. Tuttavia, fornendo ai genitori le opzioni scolastiche disponibili su un semplice foglio, ordinate in base ai risultati medi ottenuti dai ragazzi nei test standard (e dai tassi di accettazione), le iscrizioni verso le scuole di qualità sono raddoppiate nel caso studiato, con un allineamento nelle scelte tra genitori ad alto e a basso reddito.
A differenza del piano NCLB, quest’ultimo “esperimento” potrebbe essere implementato anche in Italia, senza la necessità di alcuna (rilevante) copertura finanziaria. Basterebbe rendere pubblici i risultati di test standardizzati nazionali per scuola (magari non solo di italiano e matematica), in modo da consentire ai genitori una scelta concreta tra diverse opzioni differenziate secondo un indicatore di qualità (benché criticabile), senza fermarsi necessariamente alla logica più comoda della scuola di quartiere.
Mettere al centro del problema la scelta genitoriale può essere una chiave di soluzione, in grado di creare una vera e sana competizione all’interno del sistema scolastico pubblico. Le motivazioni che possono incentivare gli insegnanti a protestare contro i test INVALSI (o altre prove simili) sono intuibili e razionali, ma dovrebbero essere i genitori a mutare atteggiamento ed a chiedere maggiore trasparenza su tali prove. Troppo spesso le famiglie valutano l’istruzione dei propri figli sulla base della logica del voto (di fine anno o conclusivo di un ciclo di studi), senza capire che il voto può restare fine a se stesso e utile ormai quasi unicamente nei concorsi pubblici se non accompagnato da un’adeguata preparazione. Incentivare i genitori a virare verso la qualità dell’istruzione è una sfida che potrebbe pagare.
Si obietterà che la scuola pubblica non può rispondere a qualche logica di mercato, ma non è stato di certo quest’ultimo a causare gli squilibri attuali. Alcuni “nudge” potrebbero far comodo, non solo al Mezzogiorno.
Twitter @frabruno88
[1] Richard H. Thaler, Cass R. Sunstein: “Nudge: Improving Decisions About Health, Wealth, and Happiness”