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Fisco e multinazionali: il duello Ue-Usa tra aiuti di Stato e autolesionismo
Difficile dire se si tratti di incapacità comunicativa dell’Unione Europea o di disattenzione dei media, ma stanno passando in sordina (salvo eccezioni) alcune battaglie di Bruxelles che – secondo i canoni di giudizio più diffusi nel nostro Paese – dovrebbero essere molto popolari. Mentre in passato le sanzioni della Commissione inflitte ad esempio a Microsoft ebbero una certa risonanza, la strategia attuale volta a combattere le evasioni/elusioni delle grandi multinazionali non sta riscuotendo lo stesso successo mediatico. Eppure l’argomento è molto importante, tanto da interessare i complessi rapporti strategici tra Usa e Ue.
La lettera
Con una lettera dell’11 febbraio indirizzata al presidente Juncker, il segretario del Tesoro degli Stati Uniti Jacob Lew lamenta l’applicazione estensiva della disciplina degli aiuti di Stato da parte della Commissione europea nei confronti – soprattutto – di multinazionali americane, in spregio a quanto convenuto in sede OCSE e durante i meeting del G-20. In particolare Lew evidenzia:
1 – Un’applicazione di sanzioni retroattive nei confronti delle aziende dovute a una nuova interpretazione della disciplina sugli aiuti di Stato;
2 – Una sproporzione di investigazioni nei confronti di società americane;
3 – La tassazione da parte degli Stati Membri di profitti sottratti al Fisco americano e, quindi, in danno ai contribuenti statunitensi;
4 – Il rischio crescente di compromettere i trattati fiscali tra le due potenze.
La risposta della Commissione è del 29 febbraio e porta la firma del Commissario Margrethe Vestager, la quale respinge le “accuse” di persecuzione nei confronti di aziende americane, indicando che dal 1999 – su 170 decisioni inerenti aiuti di Stato illegittimi – solo una manciata hanno riguardato società statunitensi. In secondo luogo, il Commissario sostiene che gli Stati Membri sono tenuti a tassare le aziende che operano nel loro territorio di competenza senza conferire vantaggi che possano minare la libera concorrenza. Da qui la necessità di applicare la disciplina degli state aids.
Le decisioni più importanti
Come ricorda questo recente working paper a cura della Commissione, il cambiamento di rotta dell’esecutivo europeo è partito nel 2014, quando è stato lanciato un approfondimento sugli accordi fiscali (tax rulings) raggiunti dagli Stati Membri con grandi multinazionali. Più di mille i casi analizzati, i più importanti dei quali hanno riguardato gli accordi tra Irlanda e Apple, Lussemburgo e Fiat, Olanda e Starbucks. Altre investigazioni, aperte nel 2015, riguardano sempre il Lussemburgo e i colossi Amazon e Mc Donald’s.
Il 21 ottobre 2015 arrivano le prime decisioni negative nei confronti di Fiat e Starbucks. Poi, all’inizio del 2016, giunge un’altra decisione pesante inerente il regime sugli utili in eccesso adottato in Belgio. In parole semplici 35 multinazionali sarebbero state avvantaggiate rispetto alla concorrenza con un abbassamento della base imponibile molto rilevante, tra il 50 e il 90%, a seguito di tax rulings (da qui il famoso slogan “Only in Belgium”). Gli utili in eccesso sarebbero quelli che una società appartenente a un gruppo riesce a conseguire rispetto ad una società singola (in virtù di maggiori sinergie, economie di scala etc.). Gli importi da recuperare ammontano a circa 700 milioni di euro.
Il progetto OCSE e le mosse della Commissione
Il Tesoro americano lamenta il mancato rispetto degli accordi internazionali, riferendosi principalmente al progetto BEPS lanciato sul finire del 2015 dall’OCSE con l’intento di scatenare una rivoluzione fiscale e di adattare gli ormai vecchi sistemi alle sfide della globalizzazione. Quindici “azioni” da implementare per combattere i tentativi di elusione delle multinazionali, che riescono (spesso legalmente) a sottrarre ai vari erari miliardi di euro ogni anno.
Tralasciando in questa sede i vari aspetti coperti dal BEPS (che nel frattempo compie altri passi in avanti), cerchiamo di capire se le accuse americane possano avere un fondamento. Secondo Lew le investigazioni della Commissione europea non rispetterebbero quanto previsto nel progetto BEPS che – all’azione 5 – prevede una maggiore trasparenza e collaborazione fra i Paesi per ciò che concerne gli accordi fiscali. Gli Usa temono in pratica che le somme recuperate dagli Stati Membri a seguito di accertamento di un aiuto di Stato illegittimo siano in realtà risorse sottratte al Fisco a stelle e strisce. La Commissione, di contro, sostiene che un sistema capace di favorire una doppia non-imposizione (anziché garantire il divieto di doppia imposizione) sia profondamente iniquo e lesivo della libera concorrenza, nonché in grado di privare di importanti risorse le casse sofferenti degli Stati europei (alle prese con noti problemi di deficit e di debito).
Basta leggere questa recente comunicazione del Commissario Vestager per capire che la Commissione intensificherà l’attenzione nei confronti degli aiuti di Stato corrisposti in forma di tax ruling, a prescindere dai malumori americani (con ripercussioni anche sulle trattative già precarie sul TTIP? Vedremo).
Se da un punto di vista giuridico l’operato della Commissione sembrerebbe in linea di massima legittimo, sussistono due perplessità di fondo.
La prima riguarda la certezza delle situazioni giuridiche. Gli accordi fiscali sono raggiunti tra imprese e Stati nazionali al fine di prevenire e superare un potenziale contenzioso. Ad esempio, recentemente l’Italia ha raggiunto un accordo con Apple per il pagamento di 318 milioni di euro a causa di mancati versamenti dell’Ires tra il 2008 e il 2013. Molti hanno sottolineato che in realtà la somma dovuta fosse molto maggiore, ma nel frattempo il Fisco ha evitato un lungo contenzioso ed ha incamerato una grossa somma che in periodi di vacche magre male non fa. Ma se un giorno – per ipotesi – tale operazione dovesse essere qualificata come aiuto di stato illegittimo con tanto di recupero delle somme maggiorate degli interessi, quale sarebbe l’impressione? Ovviamente ne risentirebbe quella certezza giuridica che cercano le imprese quando decidono in quale nazione investire.
La seconda perplessità è di natura politica ed economica e riguarda il futuro dell’Unione. Come segnalava in questo articolo provocatorio l’Economist, la percezione di una politica di “State Raid” di certo non aiuta la crescita nell’epoca dei mercati globali. Nonostante la media europea del Total Tax Rate sia ancora in linea con la media globale (di poco superiore al 40%), in molti Stati Membri le percentuali sono di gran lunga maggiori (l’Italia primeggia con il 64,8%, ma il problema riguarda anche Francia, Belgio, Austria, Spagna etc.). La crescita, come sappiamo, è latitante, ma le velocità sono diverse. Ad esempio il +7,8% dell’Irlanda nel 2015 è notoriamente conosciuto, ma è frutto soprattutto di politiche “non ostili” nei confronti delle multinazionali e di una Corporate Tax al 12,5%. Se quindi è giusto che non vengano concessi favoritismi fiscali ad alcune imprese rispetto alle altre, dall’altro lato si denota una scarsa attenzione o preoccupazione da parte della Commissione rispetto ai livelli di pressione fiscale tra i vari Stati Membri, molto diversi. Ecco perché forse sarebbe più opportuno muoversi su scala internazionale, seguendo il progetto OCSE, piuttosto che perseguire strade unilaterali capaci di creare conflitti in sede G-20 (notizia recente è invece l’approvazione del pacchetto di misure anti-elusione).
Ciò che preoccupa il Fisco statunitense – ma non sembra preoccupare la Commissione – è che le multinazionali americane sono molto abili nel riuscire a pagare meno tasse. Infatti, nonostante il tasso ufficiale della Corporate Tax (anno 2015) negli Stati Uniti sia stato del 39% rispetto al 25% europeo, il tasso effettivo pagato dalle Top 50 società statunitensi è stato del 24% contro il 35% delle Top 50 europee. Questo significa che le multinazionali a stelle e strisce riescono a muoversi molto meglio rispetto alle concorrenti europee nella ricerca di maggiori risparmi fiscali e che, di conseguenza, riusciranno a schivare anche le insidie europee come hanno già fatto con quelle domestiche. E questo problema può essere ridotto solo con iniziative di respiro globale. Nell’attesa, benché non si possa ignorare la disciplina sugli state aids, sarebbe auspicabile rendere l’Europa un ambiente più favorevole alle imprese, piccole o grandi, europee e non, senza discriminazioni, magari riconvertendo le risorse recuperate per iniziare un abbassamento significativo delle tasse sulle imprese. L’Irlanda non cresce casualmente come la Cina.
Inoltre, è altamente probabile che, dopo la Brexit, l’Inghilterra possa puntare ad una tassazione ancor più favorevole per le grosse società, anche per compensare gli effetti negativi dell’uscita dall’Ue. Tutto ciò rischia di ridurre ancora di più gli investimenti dei grandi gruppi nei Paesi Ue con un’alta tassazione (come l’Italia) e – paradossalmente – non pare nemmeno giovare in termini di popolarità all’Unione, a causa di un insolito e raro caso di scarso interesse dei media e dell’opinione pubblica nelle vicende che riguardano le “multinazionali cattive”. Bizzarrie contemporanee.
Twitter @frabruno88