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Le ragioni economiche di chi tifa Brexit
Come ho scritto in un post sul mio blog, Back of the Envelope, i britannici favorevoli all’uscita dalla UE sono più numerosi tra coloro che appartengono alla working class, hanno istruzione medio bassa, età superiore ai 50 anni, sono uomini, votano UKIP e abitano in East e West Anglia. È possibile darne una spiegazione “economica”?
Quasi tutti gli studi disponibili (HM Treasury, 2016; IFS, 2016; OECD, 2016; NIESR, 2016, The Guardian 28 May 2016) mostrano che l’uscita del Regno Unito provocherà danni sostanziali all’economia britannica nel suo insieme (in termini di salari reali, occupazione, crescita, prezzi delle case, borse, bilancio dello stato al netto dei contributi versati alla UE, bilancio di famiglie, imprese e banche, investimenti esteri, produttività) sia nel breve che nel lungo periodo. Dunque non è ovvio dare una spiegazione in chiave economica della popolarità di Brexit.
Una possibilità è guardare a chi perde e chi guadagna da Brexit. Prendiamo il modello “standard” di commercio internazionale (modello Hecksher-Ohlin-Samuelson). Funziona così. Supponete che ci siano due tipologie di lavoratori, “skilled” e “unskilled”, e due tipi di settori produttivi, quello “tradizionale”, ad elevata intensità di lavoro non specializzato e che compete con le importazioni, e quello di servizi “avanzati”, ad elevata intensità di lavoratori istruiti/specializzati, che esporta in Europa.
Cosa succede se il Regno Unito esce dall’Europa? Il primo effetto è che si riducono i prezzi per i produttori inglesi dei servizi esportati, per effetto delle nuove tariffe e barriere doganali imposti dagli altri paesi europei; il secondo è che aumentano i prezzi per i consumatori inglesi dei beni importati dalla UE, a causa delle nuove tariffe imposte dalla Gran Bretagna sulle importazioni. Allora si ridurrà la produzione del settore export-oriented e dunque la domanda di lavoratori specializzati, e di converso aumenterà la produzione del settore tradizionale, e dunque anche la domanda di lavoro non specializzato. Di conseguenza aumenterà il salario (reale) dei lavoratori meno specializzati e si ridurrà quello dei lavoratori specializzati (è il teorema di Stolper e Samuelson).
Conclusioni simili si ottengono dai modelli recenti che sottolineano l’eterogeneità tra le impresa e la concorrenza monopolistica. Il ritorno di barriere commerciali tende lasciare in vita le imprese a bassa produttività, accresce la presenza di quelle a produttività intermedia, e ridimensiona le imprese più efficienti, quelle che esportano. Questi effetti riducono la produttività media delle imprese, ma anche le disuguaglianze salariali, perché i salari sono più alti nelle imprese più produttive.
Entrambi gli approcci suggeriscono che la fuoriuscita da un’area di libero scambio riduce il benessere della società. In particolare, il protezionismo riduce la concorrenza e favorisce il potere di mercato delle imprese locali, che aumentano i prezzi; riduce la varietà dei beni disponibili, riduce la scala di produzione delle imprese, e dunque la loro produttività media, si riducono gli incentivi alla Ricerca e Sviluppo ed all’innovazione. E tuttavia, almeno in teoria, le restrizioni commerciali potrebbero comportare effetti redistributivi capaci di spiegare la popolarità di Brexit.
In pratica però non è facile ottenere una stima di questi effetti. Un recente studio del Centre for Economic Performance della London School of Economics analizza le possibili conseguenze di un ritorno delle barriere commerciali sulle diverse fasce di reddito delle famiglie. Si considerano qui solo gli effetti sui prezzi dei beni. Si ipotizzano 2 scenari: nel primo, definito “ottimistico”, il Regno Unito rimane membro della European Economic Area, come la Norvegia, che ha un accesso preferenziale al mercato unico, in questo caso le tariffe e barriere commerciali aumentano “poco”; nel secondo, “pessimistico”, il Regno Unito viene trattato alla stregua di qualsiasi altro paesi aderente alla World Trade Organization e le barriere commerciali aumentano considerevolmente.
La figura 1 mostra come aumenterebbero i prezzi dei diversi beni nei due scenari: gli effetti sarebbero notevoli per trasporti, alimentari e alcolici, vestiario, trasporti. Considerando il peso che ciascuna categoria di beni ha nel paniere di spesa delle diverse fasce di reddito è possibile calcolare effetti di breve e lungo periodo sul potere d’acquisto delle diverse famiglie (Figura 3). Le perdite di lungo periodo sono considerevoli, ma abbastanza omogenee tra le diverse fasce di reddito, e vanno dal 6% nello scenario “ottimistico” al 14% in quello pessimistico.
Un altro aspetto “redistributivo” di Brexit a favore della “working class” potrebbe essere questo: se si limita l’immigrazione (di lavoratori non specializzati) si riduce la competizione salariale per i lavoratori non specializzati. Eppure gli studi sugli effetti dell’immigrazione sui salari e l’occupazione nel Regno Unito non trovano effetti significativi su salari e occupazione dei nativi, né sulle diseguaglianze, mentre l’effetto complessivo sul Welfare è positivo.
Conclusione: anche se effetti redistributivi potrebbero essere importanti, mi sembra che la popolarità di Brexit in ampi segmenti della società britannica sia da collegarsi al risentimento contro Europa e immigrati, ritenuti responsabili della crisi e delle conseguenti difficoltà di una parte molto ampia della popolazione.
Twitter @pmanasse