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Non è un paese per la Garanzia Giovani. Cosa non va e da dove ripartire
“Non è un paese per vecchi” è un noto film dei fratelli Coen che ha conquistato gli Academy Awards otto anni fa. Il titolo è stato spesso riadattato alla situazione sociale dell’Unione Europea, alle prese con un’alta disoccupazione giovanile, seppur con marcate differenze tra i vari Stati Membri.
Tali differenze sono ad esempio affrontate in “No Country for Young People?”, un e-book edito dal sito VoxEU.org che affronta i “Youth Labour Market Problems in Europe”. Il testo suddivide alcuni Paesi europei in tre categorie sulla base dei risultati ottenuti nel contrasto alla disoccupazione giovanile: Top performers, Middle performers e Laggards (ritardatari). “Ahinoi”, l’Italia viene inserita nell’ultimo gruppo insieme a Grecia Portogallo e Spagna.
La grave situazione è confermata nell’ultimo Rapporto annuale Istat che certifica che il tasso di occupazione giovanile in Italia (fascia di età 15-34) è inferiore di 16,5 punti percentuali rispetto alla media UE, attestandosi nel 2015 al 39,2%. Per quanto concerne i NEET, essi sono calati del 2,7% rispetto al 2014, ma restano più di 2,3 milioni e sono aumentati di circa mezzo milione dal 2008. Quasi la metà (44,6%) risiede nel Mezzogiorno.
La misura più significativa avviata dall’Italia per combattere il fenomeno dei NEET è Garanzia Giovani, iniziata due anni fa, parte del progetto Youth Guarantee di matrice europea.
Garanzia Giovani: un flop?
Ogni settimana viene pubblicato sul sito di Garanzia Giovani il report di aggiornamento sui risultati raggiunti dal programma. Nell’ultimo bollettino i numeri confermano nuovamente che quantomeno l’iniziativa ha suscitato interesse nella fascia di età interessata (15-29). Gli utenti registrati dall’inizio del programma sono 1.062.335 (923.965 al netto delle cancellazioni).
I presi in carico, giovani a cui viene fatto un primo colloquio per individuare il profilo e che firmano un patto di servizio, sono invece 694.253. Qui i numeri iniziano a ridimensionarsi. Sono infatti 332.902 quelli a cui è stata proposta almeno una misura.
Per avere un quadro completo dello stato di avanzamento del programma occorre però leggere i dati disaggregati. Ci aiuta in questo un recente e-book redatto dall’associazione ADAPT Labor Studies, a cura di Giulia Rosolen e Francesco Seghezzi, intitolato “Garanzia Giovani due anni dopo. Analisi e proposte” , nonché i dati ISFOL che però sono fermi alla rilevazione di marzo.
Nello studio ADAPT si legge che fino a marzo 2016 gli utenti che hanno ricevuto un’opportunità sono poco più di 220 mila. La voce più rilevante è quella dei tirocini (quasi 136 mila) che ha già superato il target prefissato.
Nel complesso, prendendo a riferimento i dati di maggio (332.902), si è ancora lontani dall’obiettivo complessivo di 786.826 NEET da integrare nel marcato del lavoro entro il 2018. Siamo al 42,30%, ma trovandoci ancora al mid-term dell’orizzonte temporale individuato dal target, bisogna riconoscere che esso possa essere raggiunto, seppur con numeri diversi da quelli ipotizzati per le differenti voci occupazionali.
Qualche parola va però spesa sulla qualità dei numeri. Lo studio ADAPT mette in evidenza che l’elevato numero di tirocini avviati ha in pratica sostituito altre forme di contratto più congeniali per lavori come «(…)dal maggiordomo al facchino, dal “manovale con esperienza” al pizzaiolo, dalla segretaria all’addetto al caricamento dati». Sono invece scarsi i dati sull’apprendistato, che avrebbe dovuto invece rappresentare la leva di placement nelle intenzioni europee (nessuna risorsa stanziata per questa voce in Sardegna, Piemonte, Veneto e Liguria).
La riflessione conseguente è che i fondi vengono utilizzati per incentivare posizioni lavorative che avrebbero trovato il loro sbocco probabilmente anche senza Garanzia Giovani, ma che ne sfruttano le risorse per abbassare il costo del lavoro. Se vogliamo allargare la riflessione, è un po’ quello che è successo con gli sgravi contributivi per i nuovi assunti del 2015 o con l’uso distorto dei voucher per i lavori accessori.
Infine, preoccupano molto le tempistiche che intercorrono dall’iscrizione al portale fino alla prima offerta di lavoro. Una burocrazia lenta e cervellotica che scoraggia gli utenti. Segnali positivi invece per i maggiori fondi stanziati per l’auto-imprenditorialità rispetto alle previsioni iniziali.
Le differenze lungo il Paese
Una criticità evidenziata anche dalla Commissione Europea riguarda le inefficienze nei sistemi di monitoraggio regionale. Rappresentano ancora la maggioranza le regioni che non pubblicano i report periodici. Questo rende difficoltosa l’analisi dei dati e la valutazione complessiva del programma.
Si riscontrano altre differenze nelle percentuali dei presi in carico rispetto agli iscritti. Si va da un rapporto superiore al 69% per Veneto e Lombardia ai meno soddisfacenti risultati di altre regioni come le Marche o la Calabria (54 e 55%).
Ancor più marcate le differenze se si guarda al rapporto percentuale tra presi in carico e proposte concrete. Qui si va dalle ottime performance di Lombardia e Veneto (80 e 84%), a quelle intermedie di Toscana e Lazio (51 e 54%), fino a quelle insufficienti di Puglia e Basilicata (19 e 32%).
Purtroppo mancano diversi dati regionali, ma considerato che le regioni con il maggior numero di NEET sono proprio quelle del Mezzogiorno, sembrerebbe che le intenzioni del piano non stiano trovando i riscontri attesi.
I dati di Lombardia e Veneto infatti sono sicuramente positivi e contribuiscono a migliorare la media nazionale, ma si tratta di regioni che hanno di per sé una percentuale di NEET “bassa”, pari rispettivamente al 18,6 e al 17%. Preoccupano invece i risultati di territori come Calabria, Sicilia o Puglia che hanno percentuali molto peggiori (rispettivamente 39,9 – 38,9 – 33,1%) e che, quindi, necessiterebbero di risultati ben più soddisfacenti.
Da dove ripartire
Molti pongono l’accento sull’insufficienza delle risorse. Un miliardo e mezzo di euro di certo non sono pochissimi, ma probabilmente lo diventano se comparati ad altre voci di spesa già approvate o che si intendono approvare (leggasi pensioni).
Ma oltre al quantum delle risorse ciò che fa la differenza è la loro corretta allocazione. Il rischio è quello di disperdere fondi per ottenere risultati che si sarebbero raggiunti anche senza l’utilizzo degli stessi.
Lo studio ADAPT contiene un decalogo di punti su cui intervenire per migliorare il programma (Pag. 13). Tra i tanti mi preme evidenziare il grave problema del cosiddetto skills mismatch, inteso come «mancata corrispondenza tra competenze dei candidati e requisiti richiesti dal mercato del lavoro». Siamo tra i Paesi OCSE maggiormente afflitti da tale problema e forse non è esagerato affermare che da questa lotta dipende il futuro di tutte le politiche attive correlate al Jobs Act e del nostro intero mercato del lavoro.
Programmi come Garanzia Giovani dovrebbero servire proprio a questo, creando – come suggerisce Seghezzi – una «(…) rete (che) dovrebbe servire a correggere le disfunzioni dei sistemi formativi, individuando, a partire dai profili stessi dei giovani in carico, le competenze sulle quali investire per colmare lo skills mismatch (…)».
Se invece il programma continuerà a limitarsi ad eseguire un mero incrocio domanda/offerta, sinceramente per tale fine sono sufficienti piattaforme come LinkedIn o Monster. L’intervento pubblico ha senso per sopperire ai fallimenti del mercato, non per sostituirsi a quest’ultimo senza apportare un valore aggiunto.
Ovviamente il tutto dovrebbe muoversi in un disegno complessivo che coinvolga miglioramenti nel sistema scolastico e universitario. Soprattutto in quest’ultimo, dove ancora pervade una logica di cattedre e poltrone, di centinaia di corsi inutili o quantomeno lontani anni luce da ciò che chiede il mercato del lavoro attuale.
Non a caso, all’interno dell’e-book sopracitato, nel gruppo dei Top performers troviamo Austria, Germania, Olanda e Svizzera grazie a un uso efficiente del sistema duale. Un esempio di cosa significhi ciò concretamente viene dal professor Schwartz «Da qui al 2020 il 30% dei posti di lavoro riguarderanno la categoria delle competenze medie, ovvero quelle che vanno oltre il diploma ma non necessitano di una laurea – ha spiegato il professore -. Queste competenze oggi non ci sono e si rischia il paradosso che avremo buoni lavori ma non le competenze per svolgerli. Per questo motivo, serve oggi una spinta educativa non tanto e non più verso la formazione universitaria, su cui si è spinto per vent’anni, quanto invece verso la formazione scolastica tecnica e tecnologica che sta a metà tra diploma e università, da impartire secondo reali esigenze imprenditoriali e di mercato».
C’è tanto lavoro da fare, a più livelli. La disoccupazione giovanile e i NEET sono un fenomeno complesso che per la loro soluzione non richiedono solo risorse economiche, ma una visione programmatica di lungo periodo. Occorre ripensare un sistema scolastico che non ha bisogno di bonus o “mance”, ma di ricollegarsi al mondo iper-veloce delle imprese dal quale si è distaccato per inseguire la strada di un isolamento teorico troppo fine a se stesso.
Twitter @frabruno88