Quanto è credibile il misterioso Shanghai Accord sulle valute?

scritto da il 09 Maggio 2016

Il 22 settembre 1985 presso l’Hotel Plaza di New York i ministri delle finanze ed i banchieri centrali del cosiddetto gruppo dei 5 (G5) formalizzarono il più importante memorandum di intervento sul mercato valutario dalla fine del sistema di Bretton Woods,  quello che è stato definito il “Plaza Accord”. Si giunse così al termine di un quinquennio che, caratterizzato dagli alti tassi d’interesse reali introdotti dalla Fed nel 1981 e continui e crescenti deficit  pubblici dell’amministrazione Reagan, avevano determinato l’apprezzamento del dollaro di circa il 45% rispetto alle altre principali valute.

Se agli inizi degli anni ottanta l’apprezzamento della valuta statunitense non aveva destato problemi nell’amministrazione Reagan, che considerava invece il dollaro forte come segno della ritrovata fiducia nel vigore dell’economia a stelle e strisce, con l’inizio del secondo mandato e la nomina di James Baker quale segretario al Tesoro, l’atteggiamento degli Stati Uniti verso il crescente deficit commerciale e l’andamento della valuta cambiò decisamente, tanto che l’ipotesi di restrizioni commerciali alle importazioni erano seriamente prese in considerazione sia dalla presidenza che dal Congresso.

Gli Stati Uniti arrivarono quindi al G5 del settembre 1985 con una posizione estremamente ferma rispetto ai principali partner commerciali, Giappone e Germania in primo luogo, con la seria possibilità che venissero varate pesanti restrizioni al commercio. L’accordo, riconoscendo il ruolo che il tasso di cambio ricopriva nell’aggiustamento degli squilibri esterni, stabiliva in sostanza che “era desiderabile un ordinato apprezzamento delle principali valute rispetto al dollaro”. In questo modo si sarebbe potuto favorire la riduzione del deficit degli Stati Uniti, alleviare il peso dell’indebitamento in dollari dei Paesi emergenti e sostenere una più equilibrata crescita a livello globale. Il deprezzamento, che era iniziato già da alcuni mesi a seguito delle dichiarazioni del precedente Segretario al Tesoro, Donald Regan, riportò il dollaro al livello che aveva all’inizio del 1981 nei confronti delle altre principali valute.

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Tralasciando gli effetti che tale accordo ebbe sulle economie coinvolte (che vi sia stata causalità o meno con la crisi giapponese degli anni novanta e con il riequilibrio del saldo di partite correnti Usa – avvenuto però solo dopo che la caduta del dollaro si era arrestata) il Plaza Accord rimane l’ultimo grande intervento coordinato a livello internazionale per guidare il cambio di una valuta. Le linee guida che si sono affermate successivamente nei vari consessi internazionali (G7, G8, G20 e così via) vanno in direzione completamente opposta a tali tipologie di accordi, tendenti invece a preservare la formazione di un prezzo di mercato delle singole valute.

Rimane pertanto abbastanza complicato credere alla versione rilanciata con vigore da importanti siti e blog internazionali di un possibile nuovo accordo avvenuto lo scorso 26 febbraio al G20 di Shanghai, il cosiddetto “Shanghai Accord”, per un intervento congiunto da parte delle principali Banche Centrali al fine di porre una guida al mercato valutario e di conseguenza a quello delle materie prime e dei corsi di borsa.

Prima di spiegare in cosa consiste questo fantomatico accordo è interessante ricordare in che modo si è arrivati al G20 di Shanghai. A partire dall’agosto dello scorso anno, quando la Banca del Popolo Cinese decise a sorpresa di riallineare per due volte il cambio dello yuan verso il dollaro, si è assistito ad una crescente volatilità sui mercati, frutto dell’incertezza sulle prospettive di crescita della seconda economia al mondo che si è manifestata in una massiccia fuga di capitali dalla Cina (si stima che nel 2015 abbia raggiunto i 1000 miliardi di dollari).

Tutto ciò ha ulteriormente rafforzato il rischio di nuove svalutazioni dello yuan, con conseguenti danni sia interni alla Cina (per le imprese cinesi indebitate in dollari) che esterni (con possibili effetti esponenziali sulla deflazione già in atto). L’incertezza sullo stato dell’economia cinese si è perciò sommata alle tensioni presenti per l’avvio della normalizzazione dei tassi da parte della Fed, ed alle conseguenti pressioni in corso sulle materie prime e sui mercati emergenti. Una situazione che poi, probabilmente innescata dai due conseguenti crolli della borsa cinese di inizio anno, ha portato al sell-off generale di gennaio/febbraio 2016.

Al G20 di Shanghai si è discusso dello stato dei mercati internazionali e della necessità di porre dei rimedi ai rischi alla crescita globale. La Cina puntava ad arrestare la fuga di capitali in atto mantenendo però una politica monetaria accomodante; gli Usa e la Gran Bretagna avevano interesse ad evitare nuovi riallineamenti del cambio dello yuan sul dollaro, che avrebbero destabilizzato ancor più i mercati; l’Eurozona ed il Giappone, invece, avevano interesse a sostenere la propria domanda interna.

L’incontro di questi interessi avrebbe pertanto dato vita allo Shanghai Accord, l’accordo per deprezzare il dollaro rispetto all’euro ed allo yen. In questo modo la Cina, mantenendo lo yuan agganciato al dollaro, avrebbe ottenuto il deprezzamento che cercava per scaricare parte delle tensioni date dalla fuga di capitali e non compromettere la stabilità finanziaria del proprio sistema creditizio. Gli Usa, rallentando il processo di normalizzazione dei tassi d’interesse, avrebbero evitato le forti perturbazioni sui mercati date da una sempre più probabile svalutazione dello yuan sul dollaro. Eurozona e Giappone avrebbero dovuto però fermare il trend di discesa dei propri tassi nominali (ormai divenuti negativi) e, per evitare di essere il vaso di coccio tra Usa e Cina, focalizzarsi sull’erogazione del credito all’economia e sulle manovre fiscali. Le economie emergenti avrebbero trovato sollievo attraverso il deprezzamento del dollaro (e quindi il minor peso dei debiti contratti in dollari dal loro settore privato) e la ripresa delle quotazioni delle materie prime.

Da allora l’andamento dei mercati sembra aver confermato l’esistenza di tale accordo, dando sempre più risalto mediatico all’argomento, al limite da giungere, come spesso accade, a versioni più o meno complottiste.

Il dollaro si è deprezzato nei confronti delle principali valute;

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il petrolio e le altre materie prime si sono apprezzate;

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Gli indici di borsa sono ritornati verso i massimi.

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Quanto però c’è di vero nell’esistenza di questo accordo?

Innanzitutto occorre sottolineare che non c’è stata in questi due mesi nessuna conferma ufficiale verso l’esistenza di qualsiasi tipo di accordo. Il G20 di Shanghai si è concluso con il consueto impegno ad “utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per rafforzare la crescita globale” ed “astenersi da svalutazioni competitive e fissazione di cambi per ragioni competitive”.

Non ci sono state notizie in questi mesi di significativi acquisti di valute da parte di alcuna Banca Centrale destinati ad apprezzare euro o yen rispetto al dollaro. Inoltre, sebbene le ultime manovre della BCE e della Banca Centrale del Giappone vadano a confermare la teoria dell’accordo, perché meno espansive rispetto a quanto anticipato dal mercato, è da ricordare come da tempo le due banche centrali abbiano fatto presente che esiste un lower bound in termini di tassi oltre il quale difficilmente si possa andare.

Riguardo poi la difficoltà della FED nel proseguire il ritmo di normalizzazione dei tassi d’interesse è da sottolineare come tale circostanza non fosse del tutto imprevedibile, se anche un semplice osservatore come me se ne era potuto accorgere con sufficiente anticipo.

Pertanto è difficile al momento dare fondatezza all’esistenza di un accordo formale per incidere sul mercato valutario, come avvenuto nel 1985, per deprezzare il dollaro. Nel 1985 il deprezzamento continuò per circa 3 anni, e nel mentre vi furono altri incontri per monitorare il funzionamento delle manovre. Al momento è troppo presto per dire quanto questo movimento possa durare e se gli effetti di stabilizzazione saranno duraturi.

Piuttosto, per il momento, propenderei per considerare la situazione attuale come l’ennesima dimostrazione di come Keynes descriveva il funzionamento dei mercati, secondo la teoria del concorso di bellezza, nel senso che attualmente non importa se esista o meno lo “Shanghai Accord”, nel mercato si sta via via rafforzando la percezione che tale accordo vi possa essere o che comunque possa essere nell’interesse delle principali economie, e tanto basta a far muovere le valute, i corsi di borsa e le materie prime in una direzione che è coerente con il presunto accordo.

Almeno fino alla prossima perturbazione.

Twitter @francelenzi