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L’incredibile deriva protezionistica delle presidenziali Usa
Mentre si attendono le primarie nel Nord-Est che, a meno di sorprese, dovrebbero sancire le vittorie di Donald Trump e Hillary Clinton nei rispettivi partiti, probabilmente mai come nella presente campagna elettorale si era percepita una così forte avversione (finta o reale) contro il libero commercio internazionale.
In Italia ci siamo abituati, essendo un sentimento comune a tutti i partiti, salvo rare eccezioni. Infatti ad esempio sono (purtroppo) davvero in pochi a difendere il Presidente della Repubblica che apertamente afferma che «il destino dell’Italia sia legato al superamento delle frontiere e non al loro ripristino» mentre elogia i risultati dell’export di vini italiani. Ma almeno i pochi che credevano negli effetti positivi del free trade avevano la possibilità di citare – anche impropriamente – l’esempio americano quale benchmark di riferimento.
L’America dei trattati Nafta (North American Free Trade Agreement), TPP (Trans-Pacific Partnership), l’America che tratta con l’Unione Europea il tanto discusso TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), si ritrova i quattro principali candidati alla Casa Bianca a fare a gara tra chi annuncia fra loro le misure più protezionistiche.
Si legge di un Trump scatenato che promette tariffe mostruose del 35% sui veicoli Ford prodotti in Messico e del 45% sui prodotti cinesi. Di un Bernie Sanders apertamente contro i trattati summenzionati, che sarebbero contro i lavoratori americani.
Ma anche l’ex First Lady e Ted Cruz son finiti per assumere posizioni quantomeno ostili nei confronti del libero scambio, seppur con toni più moderati sul tema rispetto a Trump e Sanders.
Ma quali sono le ragioni sottese a questa ventata di protezionismo?
Le somiglianze delle posizioni espresse dai candidati sono probabilmente dovute alla ricerca dei voti dell’ “elettore mediano”, molto efficace in un sistema bipartitico. Soprattutto il comportamento ambiguo di Hillary Clinton dà valore a questa tesi.
Mentre gli economisti sono abbastanza concordi nel sostenere le ragioni del libero scambio, i politici tendono a cavalcare l’onda protezionistica. Questo avviene maggiormente durante periodi di recessione o di bassa crescita, dove le argomentazioni contro il libero commercio trovano qualche spiraglio.
E’ molto semplice usare una dialettica persuasiva durante un comizio per convincere il pubblico presente che a causa delle importazioni di prodotti di bassa qualità dalla Cina le fabbriche americane sono costrette a chiudere. E’ molto più difficile sostenere in poche battute che dazi e tariffe non siano una buona soluzione per il benessere collettivo, soprattutto nel medio-lungo termine. E la semplicità è essenziale nella comunicazione politica.
Ma c’è verosimilmente una ragione più subdola (di certo non nuova) dietro le campagne in favore di politiche protezionistiche, che consiste nell’azione dei gruppi di pressione tendenti a spacciare interessi privati per benessere nazionale.
Secondo la Public Choice (“I Fallimenti dello Stato: Introduzione alla Public Choice”), ciò avviene abitualmente attraverso il Logrolling (lo scambio di voti fra politici) e il rent seeking (la ricerca di rendite economiche attraverso pratiche di lobbismo) ed è sempre molto efficace perché i soggetti danneggiati – i consumatori, specialmente i più poveri – non riescono a percepire il danno subito oppure ad organizzarsi per sostenere le loro ragioni.
I lobbisti e i fautori del protezionismo (in buona e malafede) sono riusciti nel tempo a convincere la classe media che nel commercio con l’estero solo le esportazioni siano positive, connotando le importazioni come una necessità dai colori negativi.
Il problema è che gli stessi fautori non dicano correttamente chi, storicamente, trae vantaggio dalle importazioni a basso costo: le fasce più deboli. Queste ultime hanno tratto enormi benefici dall’abbassamento dei prezzi provocato dal libero mercato e dalla libera concorrenza, aumentando vertiginosamente il loro potere di acquisto ed avendo la possibilità di accedere a comodità inimmaginabili in passato.
Le argomentazioni possono sembrare datate e anacronistiche, ma sono invece pienamente attuali. Uno studio richiamato da The Economist ci ricorda che una chiusura dell’America al libero commercio internazionale provocherebbe una perdita del potere di acquisto dei redditi medi pari al 29% e del 62% per i redditi più bassi. Il risultato non deve sorprendere, poiché è evidente che siano i più poveri a spendere maggiormente (in proporzione al loro reddito) per i beni a basso costo oggetto del commercio internazionale.
In definitiva, se i quattro candidati sostengono le ragioni del protezionismo non è certamente per aiutare le fasce più deboli, bensì per favorire i gruppi di interesse che finanziano le loro campagne o per accaparrarsi qualche elettore mediano in più. E il discorso si può tranquillamente traslare nella politica europea.
Gli effetti del free trade sull’occupazione
Le ricadute delle importazioni di massa da Paesi come la Cina sull’occupazione americana meritano invece più attenzione, essendo il tema maggiormente delicato.
A scanso di equivoci, è inevitabile che l’apertura al commercio internazionale possa danneggiare alcune imprese e alcuni lavoratori. Per questo è sempre bene che esistano misure sociali di protezione che siano in grado di assorbire shock economici.
Ma ciò non significa che l’interesse generale ne risulti danneggiato.
Si pensi alla produzione di acciaio, le importazioni a basso costo sicuramente possono danneggiare l’industria di un Paese (è quello che sta accadendo anche in Italia ad esempio). Ma questo è del tutto negativo? Di certo non lo è per le altre imprese che necessitano dell’acciaio per le loro produzioni o assemblaggi. Per queste ultime i costi diminuiscono, mentre aumentano i margini di profitto, con la possibilità di assumere nuovi lavoratori per aumentare la produzione.
Inoltre i gruppi di pressione riescono a sovrastimare i dati, creando allarmismi. Ad esempio nel 2015 la Cina ha esportato più di 100 milioni di tonnellate di acciaio, di cui solo il 3% è finito negli Usa. Eppure i produttori statunitensi sono riusciti a convincere il Governo ad imporre nuove tariffe anti-dumping sulle importazioni (The Economist, April 9th – 15th 2016). Qualcosa di simile sta accadendo anche nel Regno Unito con il caso Tata Steel.
In secondo luogo, per respingere le tesi protezionistiche è sempre utile ricordare la teoria dei vantaggi (o dei costi) comparati (si veda qui per una simpatica ma istruttiva versione).
Un esempio banale ma intuitivo come pochi per capire: si pensi ad uno studio legale composto da un avvocato e da una segretaria. L’avvocato è due volte più produttivo nel compiere le mansioni di segreteria rispetto alla sua segretaria, ma lo è cinque volte di più nel fare il suo lavoro forense. Secondo voi dovrebbe licenziare la segretaria e fare ambedue le mansioni personalmente? La risposta è no, essendo opportuno che si concentri su ciò che sa fare meglio, così come possono fare anche i Paesi economicamente e tecnologicamente più sviluppati (d’altronde, come avrebbe altrimenti fatto la manifatturiera Germania a resistere alla concorrenza cinese?).
Possibile che gli Usa abbiano smarrito la loro forza innovativa e migliorativa dei secoli scorsi e si debbano avviare verso una deriva protezionistica e anti-concorrenziale che segnerebbe un probabile declino?
Forse. O forse no. In fondo stiamo parlando di politici, quindi statisticamente non manterranno le loro promesse. In tal caso, per fortuna.
Twitter @frabruno88
[1] Gli esempi dell’industria dell’acciaio e dello studio legale sono anche richiamati in “Free to choose” di Milton e Rose Friedman.