Dal private equity al private debt: quale futuro per le Pmi nel nostro Paese?

scritto da il 31 Marzo 2016

Pubblichiamo un post di Fabio L. Sattin, professore a contratto senior di Private Equity e Venture Capital (Università Bocconi), presidente di Private Equity Partners SGR –

In tema di strumenti innovativi a supporto dello sviluppo della piccola e media impresa e di necessità di creare un canale sempre più diretto tra mercato e imprese, disintermediando, almeno in parte, il settore bancario, già troppo esposto e in situazione di evidente difficoltà, un peso sempre più importante lo avranno gli strumenti di debito privato (private debt). In tale contesto, un supporto fondamentale verrà, come già accaduto in altri paesi, dagli operatori di private equity. Vediamo perché.

Nell’ambito degli intermediari finanziari non bancari gli operatori di private equity sono quelli che più hanno sviluppato, da sempre, una cultura di analisi aziendale fondamentale, entrando nella vita e nella specificità delle realtà imprenditoriali, effettuando accurate valutazioni e due diligence e sviluppando con le aziende dettagliati business plan e progetti di sviluppo per poi supportarle nella loro realizzazione. È quindi evidente che si tratta di soggetti particolarmente adatti a sviluppare, in parallelo alla loro attività tradizionale, anche strumenti di credito basati non sulle garanzie “reali” ma sull’effettiva comprensione dei piani di sviluppo aziendali e sulle prospettive future e, se del caso, con meccanismi di remunerazione in parte legati al raggiungimento degli obbiettivi aziendali concordati, come nel caso degli strumenti di debito cosiddetti “ibridi”.

Ed è questo di cui oggi le aziende capaci e meritevoli hanno assoluto bisogno. Questi operatori, inoltre, sono da sempre abituati ad affiancare l’imprenditore nelle sue scelte e nella definizione delle strategie di sviluppo e possono quindi portare effettivamente un valore aggiunto concreto e tangibile: non solo denaro ma anche idee, stimoli, supporto alla realizzazione dei progetti e al processo di internazionalizzazione o di aggregazione con altre imprese. E anche di questo, in particolare in Italia, c’è grande bisogno.

Schermata 2016-03-31 alle 10.59.02Non è quindi un caso, ad esempio, che il più grande operatore di private equity al mondo, Blackstone, attraverso la partecipata GSO, abbia raggiunto i 72 miliardi di dollari in attività di credito, raggiungendo dimensionalmente gli ammontari gestiti dall’ “originaria” attività di private equity. Molti altri fondi internazionali si stanno muovendo in questo senso ed è presumibile che tale tendenza arriverà anche nel nostro paese, magari, come spesso accade, con un po’ di ritardo rispetto alle nazioni economicamente più dinamiche e dotate di regolamentazioni più flessibili. Ma la strada è chiara ed è tracciata anche per noi.

Corretta quindi la scelta di Cassa Depositi e Prestiti di utilizzare, come tramite per lo stimolo allo sviluppo di tale attività, il Fondo Italiano di Investimento il quale, avendo sviluppato una conoscenza specifica degli operatori del settore del private equity grazie all’attività condotta come “fondo di fondi”, è in grado di selezionare e svolgere lavori di due diligence al fine di identificare i migliori potenziali gestori per tale nascente e importate attività finanziaria.

Ma per chiudere il cerchio c’è bisogno che anche gli investitori istituzionali, in particolare i nostri fondi pensione, casse previdenziali e compagnie di assicurazione, investano in tale interessante e attrattiva asset class, così come fanno i loro colleghi, da anni, in tutto il mondo. Ma per farlo è necessario che capiscano bene di cosa si tratta e comprendano le molteplici articolazioni e significative differenze esistenti all’interno di tale comparto. E come per tutte le cose, per farle bene servono competenze specifiche e formazione adeguata. Ed è questo forse il punto più importante sul quale lavorare per fare in modo che anche in Italia questo segmento si sviluppi positivamente.

Le associazioni di categoria e qualche Università si stanno già muovendo in tal senso predisponendo corsi o altri strumenti formativi. Ma affinché questi strumenti possano adeguatamente essere valutati nell’ambito di un’ articolazione del portafoglio dei nostri investitori istituzionali, è necessario partire dai vertici e sono questi che, per primi, dovranno formarsi e informarsi per poi predisporre adeguati meccanismi operativi e organizzativi per affrontare professionalmente questa interessante sfida. Anche qui, lo dovranno fare, prima o poi, inevitabilmente. E i primi che lo faranno potranno godere di un evidente e meritato vantaggio.

fabio.sattin@unibocconi.it