Made in Italy in svendita: bufala o realtà? Parte seconda

scritto da il 12 Marzo 2016

Avete mai voluto sapere quali Paesi investono da noi e in quali Paesi esteri investono gli imprenditori italiani? Il nostro viaggio nel mito del “Made in Italy in Svendita” continua, stavolta spulciando i dati degli IDE, di cui abbiamo iniziato a parlare nello scorso post.

Come avevo detto gli IDE sono gli investimenti diretti esteri, cioè quote di aziende pari o superiori al 10% del capitale che sono di proprietà di residenti esteri (persone fisiche o società). Ho fatto la puntualizzazione “persone fisiche o società” perché appunto se una società che ha residenza fiscale in Lussemburgo, o in Olanda, o in Irlanda, o nel Regno Unito, o… (inserire Paese con fiscalità agevolata a piacere), ma con soci italianissimi, ha una partecipazione pari o superiore al 10% in un’azienda con sede in Italia, questa partecipazione appunto, tecnicamente, rientra negli IDE anche se il controllo dell’azienda non è mai uscito dalle mani della autoctona famiglia Stupazzoni o Brambilla.

Già da qui state iniziando a capire che tanti titoli, post o altre amenità che si leggono su internet e in special modo sui social, magari corredati dai famosi grafici “che spiegano tutto” sono spesso narrazioni molto parziali di una realtà che è più complessa.

IDE2
Vediamo quindi i flussi degli IDE da e verso l’Italia nel periodo 1996-2012, cioè dall’introduzione “pratica” della moneta unica quando fu fissata la parità col futuro €, padre di tutte le svendite secondo alcune vulgate, all’ultimo dato disponibile con il vecchio sistema di rilevazione degli IDE che dal 2013 è cambiato in modo da risultare difficilmente raccordabile coi dati precedenti.

Come avevamo visto la volta scorsa in questi ultimi anni abbiamo investito in aziende estere più di quanto l’estero ha investito da noi, ma è curioso trovare l’Olanda sia fra le principali mete di investimento che fra i principali investitori, a riprova di quanto si diceva prima sul fatto che molti IDE sono sono in realtà italianissimi capitali “esterovestiti”.

Troviamo infatti fra i principali Paesi anche l’Irlanda, il Lussemburgo, dove però ci sono stati grossi “disinvestimenti” da parte degli imprenditori italiani, e persino le Bahamas. Un’altra “sorpresa” viene dai dati della Francia dove, nonostante la percezione “popolare” dei transalpini “predatori” di nostri settori economici come la grande distribuzione, in realtà noi siamo “in attivo” avendo investito nelle aziende dei cugini 58 miliardi contro i loro 19. Anche in Germania, che nei vaneggiamenti di qualcuno stava colonizzandoci grazie alla perfida moneta unica, siamo noi ad investire molto di più, 27 miliardi, contro i soli 5 che i tedeschi hanno speso per le nostre aziende. I soli tre Paesi con cui abbiamo un saldo passivo sono la Svizzera, la Gran Bretagna e il Belgio.

Ricordiamo inoltre le acquisizione aziendali che hanno visto solo un passaggio “estero su estero”, ad esempio l’Italcementi dalla holding olandese dei Pesenti ai tedeschi di HeidelbergCement, o la Poltrona Frau dalla lussemburghese Charme Investments di Montezemolo all’americana Haworth: IDE erano prima, IDE sono rimasti.

Riassumendo:

1) la moneta unica ha permesso a Germania e Francia di “colonizzare” la nostra economia.

FALSO
Gli imprenditori italiani hanno investito nelle aziende di Francia e Germania negli anni della moneta unica molto di più di quanto hanno fatto i loro omologhi d’oltralpe da noi.

2) i nostri imprenditori hanno investito soprattutto in paesi “arretrati”

FALSO
La maggior parte degli investimenti italiani è stata verso paesi dell’OCSE. Per esempio i nostri investimenti in Cina sono stati assolutamente marginali.

3) Ha senso ancora di parlare di aziende italiane e straniere?

NO.

Se già ai tempi di Marx il capitale non aveva nazionalità (basti pensare agli interessi britannici in tutto il mondo di allora) figuriamoci oggi dove, con la libera circolazione dello stesso, un grosso imprenditore può aprire domani una holding in Irlanda che controlla una subholding in Olanda per profittare delle diverse legislazioni fiscali; ma anche un modesto investitore può acquisire parte di un fondo di investimento in azioni USA, o di altri Paesi europei o addirittura di paesi emergenti. Senza dimenticare, poi, che nelle moderne filiere manifatturiere la percentuale importata di fattori di produzione è cresciuta fortemente negli ultimi anni e sta continuando ad aumentare.

Cerchiamo di restare seri.

Twitter @AleGuerani