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Referendum su Brexit? I banchieri britannici hanno già votato
Se mai ci sarà un referendum nel Regno Unito sull’uscita dall’Ue una cosa potremo darla per acquisita: il voto dei banchieri. Costoro hanno tutto da perderci a tirarsi fuori dall’Unione proprio adesso che si sta delineando il progetto della CMU (Capital market union) che promette di segnare la terza rivoluzione istituzionale europea dopo quella dell’unione monetaria e dell’unione bancaria.
Perciò, se mai si voterà per questo referendum, dovremmo ricordarci ciò che scrisse a maggio 2015 la Bank of England (BoE) nella sua risposta al progetto di CMU elaborato dalla Commissione Ue: “La BoE supporta con decisione l’iniziativa della CMU”. Nelle successive 44 pagine i banchieri centrali spiegarono perché e percome – con alcuni caveat – l’adesione a una unione dei capitali gioverebbe alla stabilità finanziaria e quindi alla crescita.
Argomenti che ho ritrovato in un pregevole speech di qualche giorno fa dove Dame Clara Furse, membro indipendente del Financial policy Committee della BoE si interroga se la dimensione globale, riferita ai mercati finanziari, sia ancora un bene (A changing world; is global still good?). La risposta, che ci si poteva aspettare, è un fragoroso sì. Globale in finanza non solo è bello, ma è anche auspicabile, perché significa più efficienza sui costi, sulla regolazione, sull’expertise di chi ci lavora.
La nostra esperta ci ricorda alcuni aspetti che servono a centrare il problema. Il primo è noto a molti, ma non nella sua fisionomia precisa: il Regno Unito è da decenni, per non dire secoli, un centro finanziario internazionale che oggi si stima gestisca asset per 6 trilioni, 4,5 dei quali sono di provenienza estera. Questa industria dà lavoro, si stima, a oltre un milione di persone e genera un notevole valore aggiunto alla produzione nazionale, dal quale derivano i 21,4 miliardi di tasse pagate dal settore corporate finanziario all’erario nel 2013-14. Nulla insomma che il Regno Unito si possa permettere di perdere.Specie quando oltre confine si agitano campioni ormai consolidati, come la piazza di New York, che pure se maggiormente orientata sul mercato domestico è comunque un concorrente di tutto rispetto, e la tigre asiatica di Hong Kong. Questo per dire che i banchieri che votano non sono soltanto i pochi fortunati miliardari della City o i banchieri centrali: è l’indotto che si fa due conti.
Un’altra informazione interessante, che poi motiva il titolo dell’intervento, si trova in un dato: siamo ancora in un contesto di de-globalizzazione finanziaria. “I flussi di capitale transfrontalieri – spiega Furse – guidati dalla contrazione dell’attività bancaria internazionale sono ancora in calo. Quindi sembra il tempo giusto per considerare i benefici per i mercati globali che derivano dai centri finanziari”. Per la cronaca, secondo una ricognizione che risale al 2014, tali flussi sarebbero intorno all’1,6% del Pil mondiale, a fronte del picco del 16% – dieci volte tanto – del 2007. Una contrazione che ha particolarmente colpito le banche britanniche.
Nel suo discorso la nostra banchiera compie anche una interessante ricognizione storica che parte dalla Venezia del ‘500, passando per l’Olanda del XVII secolo e il Regno Unito del XIX, per far comprendere come un centro finanziario nasca spesso sull’onda di una predominanza politica, ma tenda a conservare il suo ruolo anche quando – come nel caso della Gran Bretagna – tale predominanza sia venuta meno. A meno che, certo, non intervengano shock o errori a livello istituzionale. Come esempio più vicino a noi viene citato quello della nascita del mercato dell’eurodollaro che fra gli anni ’50 e soprattutto nei ’60 si consolidò a Londra in seguito a scelte poco felici della politica statunitense.
Ciò non vuol dire che, una volta acquisito, il rango di centro finanziario non si possa perdere. È successo a Venezia e ad Amsterdam, può succedere anche a Londra, avverte la nostra relatrice: “Le scelte politiche e istituzionali contano”.
E poiché contano, “le istituzioni devono rimanere vigili per evitare gli shock, inclusi quelli che possono derivare dall’ambiente geopolitico e macroeconomico”. E del fatto che Brexit potrebbe segnare uno shock, pochi dovrebbero dubitarne.
Ovviamente la questione non viene minimamente esplorata. Al contrario, si fa esplicito riferimento all’altra: quella della CMU. “Al livello europeo la proposta della commissione Ue di una CMU – prosegue Furse – ha il potenziale di realizzare vasti benefici di integrazione finanziaria in Europa. Se la proposta della Commissione superasse alcuni impedimenti notati dalla BoE nella sua risposta di maggio, senza dubbio potrebbe ridurre il costo dei finanziamenti all’economia reale, e questo, in un ambiente dove il costo marginale dei finanziamento è cresciuto, sarebbe senza dubbio benvenuto”.
Poiché non è credibile che il Regno Unito esca dall’Ue ma entri nella CMU, viene il sospetto che questo più di altri sia il vero oggetto del contendere. Il bluff di Brexit sedurrà pure l’opinione pubblica britannica. Ma i banchieri hanno tutta l’intenzione di andare a vedere.
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