I dazi, il dollaro e il punto di rottura

scritto da il 15 Aprile 2025

Post di Giovanni Di Corato, Amministratore Delegato Amundi RE Italia SGR* –

Dal 2 aprile – giorno delle nuove dichiarazioni dell’amministrazione Trump sull’inasprimento delle barriere tariffarie, in particolare verso la Cina – si è aperta una sequenza nei mercati che a uno sguardo superficiale sembra già vista: discesa dei listini, corsa ai T-bond, caduta dei rendimenti, indebolimento del dollaro. Poi il parziale rientro del panico, l’impennata dei rendimenti obbligazionari, la stabilizzazione dell’equity… e il dollaro che continua a scendere.

Un osservatore attento, però, dovrebbe fermarsi proprio su quel dato – il dollaro che non rimbalza – e chiedersi cosa sta raccontando, e cosa invece i mercati stanno leggendo male. Perché la narrazione che sembra aver preso piede è tanto intuitiva quanto sbagliata: che gli Stati Uniti stiano deliberatamente indebolendo la propria valuta per “scaricare” parte del debito interno ed estero sugli altri, in una sorta di default soft mascherato da svalutazione controllata. Una narrazione che rimanda alla dinamica tipica di un paese emergente dell’ex Terzo Mondo, costretto a svalutare per sopravvivere.

Ma proprio qui la lettura si incrina. Perché se c’è una cosa che gli Stati Uniti non stanno facendo, è cercare una scorciatoia valutaria. E se c’è un rischio sistemico in corso, non ha nulla a che fare con il debito pubblico americano in sé – che è alto, certo, ma denominato in una moneta che il Tesoro e la Fed controllano – quanto con la dinamica strategica tra USA e Cina sul terreno tecnologico.

I dazi? Una leva geopolitica

Il punto vero non è il dollaro, né il debito. È la traiettoria di convergenza tecnologica tra Stati Uniti e Cina. O, per essere più precisi, è il fatto che quel gap – in settori chiave come AI, semiconduttori, biotech, quantum computing – si stia chiudendo più rapidamente del previsto. Questo non è più un rischio teorico ma una traiettoria osservabile, e per Washington rappresenta un punto di rottura. L’azione tariffaria non va letta come mossa macroeconomica, ma come tentativo strategico, urgente, di interrompere o rallentare una dinamica che – se lasciata fluire – segnerebbe la fine della supremazia sistemica americana come la conosciamo.

I dazi, in questa luce, non sono uno strumento protezionista in senso classico, né una leva per riequilibrare conti esterni o salvare posti di lavoro manifatturieri. Sono una leva geopolitica, uno strumento difensivo in una guerra tecnologica già in corso. E il loro timing è tutt’altro che casuale: o ora, o mai più.

I mercati, per parte loro, sembrano aver letto l’intervento tariffario come il segnale di una svolta da parte di un debitore in difficoltà. Ma sbagliano doppio. Primo, perché gli Stati Uniti non sono un debitore in senso classico: non hanno un problema di solvibilità ma di proiezione strategica, di tenuta del proprio vantaggio. Secondo, perché non è in corso nessuna strategia di disarmo valutario. Se davvero l’azione tariffaria riuscisse a ritardare o impedire la chiusura del divide tecnologico, e se producesse effetti reali sull’economia americana (re-shoring, investimenti strategici, rilocalizzazione delle filiere critiche), il dollaro non sarebbe affatto destinato a perdere status, anzi: potrebbe consolidare ulteriormente il proprio ruolo come moneta dominante nelle aree di influenza che gli Stati Uniti intendono preservare.

Il dollaro come riflesso di un intero ordine sistemico

Ma anche qui serve cautela. Perché il dollaro non è l’indicatore di una singola traiettoria nazionale, ma il riflesso di un intero ordine sistemico. E quell’ordine – è il punto decisivo – non è in crisi solo per colpa degli Stati Uniti, ma per dinamiche globali. Il debito, oggi, è una condizione strutturale ovunque, dalla Cina al Giappone all’Eurozona. Il capitale è ovunque appeso alla liquidità, alla fiducia, alla garanzia implicita di una rete di sostegni incrociati. Parlare di un’America che scarica il proprio debito sul mondo, come se il mondo potesse assorbirlo, è semplicemente fuori scala. Siamo in un equilibrio instabile, asimmetrico, dove nessuno è veramente solvibile se non attraverso l’altro.

dollaro

La debolezza del dollaro mette in dubbio l’efficacia dell’azione americana (REUTERS/Dado Ruvic/Illustration)

E questa incomprensione non si limita ai flussi. Riguarda anche i soggetti. In molti si sono sorpresi del recente riavvicinamento dell’élite tech americana a Trump – o, per essere più precisi, alla linea strategica incarnata da Trump: duro contenimento della Cina, reindustrializzazione selettiva, politica industriale nazionalizzata, riduzione dell’interdipendenza sistemica. Ma se si abbandona il frame ideologico e si adotta una lente sistemica, non c’è nulla di strano: le grandi piattaforme sanno di essere ormai infrastrutture geopolitiche, e non solo agenti di mercato. Hanno bisogno di protezione, di scala, di continuità. E il compromesso – anche tattico – con un potere politico meno liberale ma più strategico è una mossa perfettamente razionale.

In questo contesto, la debolezza del dollaro andrebbe letta più come disallineamento temporaneo tra lettura di mercato e razionalità strategica, che come segnale profondo di declassamento sistemico. Si può discutere se l’azione americana sia efficace, sufficiente, tardiva. Ma è difficile negare che risponda a una minaccia reale – e lo faccia in un momento che, per Washington, rappresenta forse l’ultima finestra utile per contenere la convergenza tecnologica cinese.

Il punto non è stabilire se il dollaro conserverà il suo status

Che questa strategia possa tradursi in una rilegittimazione del primato americano è tutto da verificare. Nulla, al momento, garantisce che il blocco selettivo delle filiere ad alta intensità tecnologica riesca a rallentare in modo strutturale l’avanzata cinese. Ma se un tentativo può ancora avere senso, è adesso. E non sarà sul debito o sulla valuta che si misurerà il suo esito, ma sul terreno dell’economia reale.

Quanto al dollaro, il punto non è stabilire se conserverà o perderà il suo status. È riconoscere che il suo valore simbolico riflette oggi più le aspettative di chi osserva che la direzione di chi agisce. La storia monetaria, d’altra parte, raramente si fa guidare dalle intenzioni. Vive di forze che si consolidano o si dissolvono solo dopo che le scelte sono state compiute. Come sempre, sarà l’effettualità a decidere. Tutto ciò che deve accadere, accade.

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