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Sostenibilità digitale e Transizione 5.0: quali sfide per le imprese?
Post di Andrea Rosini, co-founder di Differens, Green Web Meter –
Negli ultimi anni, la sostenibilità digitale è diventata un tema cruciale nel panorama economico italiano ed europeo. Con una maggiore consapevolezza da parte dei consumatori, sostenuta da un quadro regolatorio sempre più stringente e supportata da importanti fondi nazionali ed europei, le imprese si trovano in un contesto favorevole per adottare tecnologie più efficienti, riducendo al contempo il loro impatto ambientale.
L’Unione Europea ha implementato diverse normative chiave, come il Green Deal Europeo, che punta alla neutralità climatica entro il 2050, la Direttiva sull’Efficienza Energetica e il Regolamento sulla Tassonomia UE, che definiscono i criteri per identificare attività economiche sostenibili. A queste si aggiungono la Strategia Europea per i Dati, che promuove l’uso efficiente delle risorse digitali, la Direttiva sulla Responsabilità Sociale delle Imprese (CSR), che spinge le aziende a rendere trasparenti le loro pratiche ambientali e sociali, e le linee guida sull’ecocompatibilità delle TIC, che mirano a migliorare l’efficienza energetica di prodotti come server, reti e dispositivi.
Parallelamente a questo scenario normativo europeo, in Italia è stata rilasciata nel 2023 la Prassi di Riferimento UNI 147, un esempio di regolamentazione nazionale che integra le direttive europee sulla sostenibilità digitale. Essa fornisce un quadro per la misurazione della sostenibilità dei progetti digitali attraverso KPI specifici, allineandosi con gli obiettivi di riduzione delle emissioni e di efficienza energetica dell’UE.
Uno degli aspetti più cruciali per valutare l’impatto ambientale delle piattaforme digitali e delle infrastrutture tecnologiche è infatti la misurazione della loro impronta. Ogni anno, il web e il digitale sono responsabili di circa 1,4 miliardi di tonnellate di emissioni di CO2, una produzione pari quasi al doppio (3,7%) di quella prodotta dal traffico aereo (2%), il mezzo di trasporto tradizionalmente considerato come il più inquinante al mondo. I dati parlano chiaro: ogni gigabyte di dati trasmesso su Internet produce fino a 1 Kg di CO2; una semplice ricerca su Google, ad esempio, può generare oltre 2 grammi di CO2. Quindi, se si considera il fatto che ogni giorno vengono fatte circa 3,5 miliardi di ricerche sul web, significa che nel mondo vengono prodotte oltre 7.000 tonnellate di CO2 al giorno.
Le proiezioni del report dell’ITU al 2050 indicano che l’impronta di carbonio del settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) è destinata a triplicare rispetto ai livelli attuali, se non verranno adottati interventi significativi di mitigazione. Dalla stessa analisi emerge inoltre che, ad esempio in Francia, la voce di consumo più elevata è quella dei dispositivi terminali (end device), che rappresentano circa il 79% delle emissioni totali del settore. Questa quota è dominata da smartphone, laptop e altri dispositivi personali, evidenziando la necessità di tecnologie e pratiche che possano ridurne il consumo energetico e l’impatto ambientale.
Tuttavia, la sostenibilità digitale non si limita solo alla riduzione delle emissioni di CO2. In linea con gli obiettivi ESG europei, un altro aspetto fondamentale è l’accessibilità della tecnologia. Questo impegno etico si traduce in una maggiore efficienza operativa e in un ambiente digitale equo, che permette a ogni cittadino di partecipare alla società digitale senza barriere tecnologiche. La sostenibilità digitale, in questo contesto, diventa un pilastro centrale per la creazione di un modello di business ESG più etico e sostenibile.
Per raggiungere questi obiettivi, in Italia, tra i principali strumenti a disposizione delle imprese, troviamo il Piano Transizione 5.0, che prevede una dotazione economica complessiva di 12,7 miliardi di euro per il biennio 2024-2025[1]. Questa somma è destinata a sostenere le imprese italiane nella transizione digitale ed energetica, in particolare attraverso crediti d’imposta per investimenti volti alla riduzione dei consumi energetici e all’innovazione tecnologica. L’agevolazione è subordinata al conseguimento di ben definiti obiettivi di efficienza energetica, dovendo gli investimenti essere inseriti nell’ambito di un progetto di innovazione che comporti un risparmio energetico almeno del 3%, a livello di impresa, o del 5% per il processo produttivo interessato[2].
Da non dimenticare il precedente Piano Transizione 4.0, la cui dotazione economica era stata di 13,38 miliardi di euro[3], e che continuerà a supportare le aziende che non riescono a soddisfare i requisiti più stringenti in termini di risparmio energetico del Piano 5.0. Entrambi i piani sono complementari e si concentrano sulla digitalizzazione e la sostenibilità energetica delle imprese.
I dati dell’Osservatorio MECSPE rivelano quanto questi incentivi abbiano avuto un impatto significativo: più del 50% degli imprenditori ha richiesto gli incentivi Industria 4.0 per supportare la propria crescita, destinando tali fondi principalmente alla trasformazione digitale (31%), alla R&D (14%), alla formazione (26%) e alla sostenibilità (14%). Questi incentivi hanno permesso di realizzare investimenti che altrimenti non sarebbero stati possibili: il 63% degli imprenditori, infatti, non avrebbe investito o lo avrebbe fatto in misura minore senza gli incentivi. Grazie a tali investimenti, gli imprenditori hanno constatato un miglioramento della produttività aziendale (44%), della strumentazione tecnologica (35%) e delle condizioni di lavoro generali (25%).
L’impatto positivo degli incentivi 4.0 pone basi solide per il Piano Transizione 5.0: un terzo degli imprenditori è già intenzionato ad avvalersi della nuova misura e, ad oggi, oltre l’80% delle imprese è pronto ad affrontare la transizione energetica. Il passaggio verso l’industria 5.0 è caratterizzato dalla fusione tra innovazione tecnologica e criteri di sostenibilità ESG. Non sorprende che il 44% delle imprese oggi si definisca abbastanza o molto sostenibile, con un crescente numero di imprese che misurano la propria impronta di CO2, salito al 23% dal 20% precedente, un dato promettente e rappresentativo del progresso in corso.
Nonostante le opportunità offerte da tali piani, molte imprese si trovano ad affrontare delle sfide, tra le principali emerse dall’Osservatorio del Politecnico di Milano, troviamo:
- 1. Costi elevati di implementazione e consulenza: Nonostante il 65% delle PMI abbia usufruito di incentivi pubblici per investimenti in beni strumentali, molte aziende segnalano che gli strumenti di finanziamento non sono sufficienti a coprire i costi della consulenza e dell’innovazione tecnologica, con il 33% delle PMI che ricorre ancora a linee di debito bancario per finanziare la transizione;
- 2. Mancanza di competenze interne: Il 34% delle PMI italiane segnala la mancanza di competenze digitali come un ostacolo principale per accedere a strumenti di agevolazione, con solo il 10% delle aziende che ha inserito queste figure specializzate. Inoltre, solo l’8% delle imprese ha sviluppato progetti utilizzando tecnologie avanzate come big data o blockchain, dimostrando una certa difficoltà nell’implementare innovazioni;
- 3. Tempi lunghi e complessità burocratiche per l’accesso ai fondi: L’accesso ai fondi agevolati rimane complicato a causa delle procedure burocratiche, con il 28% delle PMI che lamenta poca chiarezza nei programmi di supporto alla digitalizzazione. Questo ritardo nell’ottenere i fondi ostacola il progresso delle PMI che necessitano di liquidità immediata per i propri progetti;
A livello europeo, invece, molte aziende stanno già adottando strategie concrete per ridurre l’impatto ambientale delle proprie infrastrutture digitali e operazioni tecnologiche. Diverse grandi imprese, soprattutto nel settore tecnologico e manifatturiero, hanno iniziato a implementare soluzioni basate sull’efficienza energetica e sull’uso di energie rinnovabili per alimentare i loro data center. Inoltre, sempre più aziende europee stanno integrando gli obiettivi di sostenibilità nelle loro strategie ESG, mostrando come la sostenibilità digitale possa contribuire sia alla riduzione delle emissioni di CO2, sia al miglioramento della reputazione aziendale e dell’efficienza operativa. Questo esempio europeo può servire come modello per le imprese italiane che vogliono cogliere le opportunità offerte dalla Transizione 5.0.
Nel contesto dell’Industria 4.0, Eurostat stima che circa il 70% delle PMI nell’UE abbiano raggiunto almeno un livello base di intensità digitale. In particolare, Paesi come Finlandia (86%), Danimarca (89%) e i Paesi Bassi (80%) sono tra i più avanzati in termini di digitalizzazione, grazie a politiche mirate e incentivi strutturati per sostenere l’adozione di tecnologie avanzate come cloud computing, Intelligenza Artificiale e big data.
In confronto, le PMI italiane rimangono al di sotto della media europea: solo il 69% ha raggiunto un livello base di intensità digitale. In particolare, l’adozione di tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale è ancora limitata, con appena il 7% delle PMI che ne fa uso, mentre l’uso del cloud computing è al 44%, al di sotto della media UE del 59%.
La Transizione 5.0 non è solo una sfida tecnologica, ma rappresenta un’opportunità concreta per costruire un futuro più sostenibile e inclusivo. Grazie ai fondi disponibili e all’adozione di tecnologie etiche, le imprese italiane possono diventare protagoniste di una trasformazione che non solo migliora la competitività, ma contribuisce anche alla salvaguardia del pianeta. Il cammino verso una sostenibilità digitale è un impegno collettivo, che richiede la partecipazione attiva di imprese, istituzioni e cittadini. Sebbene le PMI italiane stiano facendo progressi nella digitalizzazione e nella sostenibilità, rimangono indietro rispetto ad alcune delle loro controparti europee più avanzate, sia in termini di tecnologie digitali che di adozione di pratiche ecologiche.
NOTE
[1] Il Piano Transizione 5.0 (Mimit)