categoria: Vendere e comprare
Agroindustria, perché il falso made in Italy è un’opportunità
Post di Luigi Consiglio, AD di Eccellenze d’Impresa –
Periodicamente vengono prodotte ricerche sui danni che le imitazioni dei prodotti italiani generano alla nostra industria agro-alimentare. L’ultima, in ordine di tempo, è una ricerca presentata da The European House Ambrosetti che descrive le perdite subite dalle nostre imprese dalla vendita di prodotti esteri che richiamano nel nome, o nella comunicazione del brand, un’origine italiana. A queste seguono regolarmente dibattiti sui motivi di queste “aggressioni” al made in Italy e conseguenti invocazioni di maggior tutela dei prodotti di produzione italiana.
Tutto questo senza però andare al fondo del problema e quindi cercare di capire razionalmente come si potrebbe contrastare questi fenomeni con logiche di mercato, per loro natura molto più efficaci degli interventi meramente regolatori.
Vorrei far riflettere il mondo agroindustriale italiano su quanto questo tema – se non correttamente affrontato – possa scivolare in letture inutili a generare vero valore per l’agricoltura e la nostra industria alimentare.
Più qualità e piani di internazionalizzazione, meno interventi regolatori
Ritengo infatti che le aziende italiane – anziché puntare a ottenere vantaggi da interventi regolatori – debbano agire in modo strategico sul mercato, puntando sulla qualità dei prodotti e su efficaci piani di internazionalizzazione.
Parto da una prima considerazione: a ben guardare, il successo di un prodotto all’estero non è dato da un più o meno esplicito accostamento a una manifattura italiana, ma è dato dalla qualità del prodotto. Cito il caso degli Stati Uniti, di gran lunga il mercato dove l’export italiano ha il più elevato valore aggiunto: molte aziende italiane già producono sul territorio americano. Questo fa sì che la legge americana non consenta più alle aziende di parlare di prodotti Made in Europe/Italy. Come nel caso della Lindt, che è stata costretta a eliminare la dicitura dal proprio marchio “prodotto in Svizzera dal 1845” poiché la società ha uno stabilimento produttivo in America. O di Barilla – anch’essa con uno stabilimento produttivo in USA – che da quest’anno, in via preventiva, ha eliminato la dicitura “Numero 1 in Italia” per non incorrere in possibili contestazioni.
I rischi di class action negli Stati Uniti
I tribunali americani proibiscono, infatti, ogni riferimento a origini non coerenti con il luogo reale di produzione. E il timore di eventuali class action impone alle aziende serie di non confondere i consumatori americani. Altri grandi produttori italiani come Fratelli Beretta, Citterio USA, o filiali di multinazionali come Galbani e Ferrero, non citano in nessuna parte delle loro confezioni riferimenti all’Italia. Perché sarebbe fuorviante per il consumatore americano e perché sarebbero passibili di class action.
Ma il successo di questi marchi negli USA dimostra che il punto importante è offrire ai consumatori americani una qualità dovuta a processi produttivi, alle tecniche di lavorazione e a materie prime uniche. Che per venire riconosciuta ed apprezzata non ha bisogno di fingersi made in Italy.
Il dibattito sul made in Italy da difendere
C’è poi il bisogno di fare chiarezza su quali siano i prodotti italiani da difendere, per non ingenerare confusioni inutili e distogliere l’attenzione dalla vera posta in gioco che è la difesa delle unicità agricole e industriali degli italiani.
L’elenco dei prodotti “copiati”, descritto per esempio nell’ultima ricerca citata, vede al primo posto il ragù, preparazione di cucina di origine francese, seguito dal pesto che è una salsa ricettata a base di basilico. Entrambe fresche e con pochi giorni di vita utile prima della scadenza. In questi casi è persino difficile capire cosa significhi la difesa della italianità. Sarebbe come dire che chi in Italia prepari un guacamole potrebbe essere accusato di mexican sounding? Dovremmo importare il guacamole dal Messico e basta? E l’hummus? E il kebab? L’argomento serio della difesa delle unicità non può mescolarsi a teorie bizzarre come la difesa della pizza o della carbonara.
Che cosa succede lungo la filiera distributiva
Dove il tema diventa più ambiguo è su denominazioni come parmesan. Qui occorre notare che il Parmigiano Reggiano, così come il Grana Padano ed il pecorino romano, viene venduto in America, e in diversi altri paesi, attraverso quote concesse ad alcuni importatori. In questo modo arriva a superare i 16 dollari alla libbra per raggiungere anche i 20 dollari in alcuni momenti. Sarebbe quindi opportuno studiare l’antitrust americano e capire se non si possa intervenire su quegli attori che lungo la filiera distributiva moltiplicano i propri guadagni con rendite di posizione prive di valore, riducendo la vendibilità dei prodotti e quindi i volumi.
Inoltre, il parmesan è un prodotto locale che costa dai 2 ai 4 dollari alla libbra, ricoprendo il ruolo di imitazione povera per chi non può permettersi l’originale. Chi in America compra il parmesan non riesce a permettersi il parmigiano, ma con quell’acquisto sogna un originale che un giorno potrà mangiare. I due prodotti, quindi, non entrano in competizione diretta.
Italian sounding addio, benvenuto made by Italian
Potrebbe anche accadere che qualche produttore caseario di Parma, di Mantova o di Cremona decida di andare a installare una produzione in Wisconsin, dove il latte è magnifico, e produrre un grana stagionato nel modo giusto per uscire sul mercato con un prodotto manufatto all’italiana ma che costi intorno ai 10 dollari alla libbra. Spostare la competenza e la capacità di fare degli italiani più vicino ai luoghi di consumo è una opportunità poderosa che soltanto il sistema Italia ha. L’obbiettivo strategico sarebbe quello di sostituire l’Italian sounding con un made by Italian, con la qualità e la sicurezza alimentare che solo gli italiani hanno nel mondo.