Un mondo digitale, i nostri dati. Conosciamo il prezzo da pagare?

scritto da il 20 Giugno 2024

Noi e la tecnologia pervasiva. Noi e gli oggetti digitali di uso quotidiano, che a volte possono sfuggire perfino al controllo esclusivo dei loro stessi utilizzatori. Siamo consci del prezzo pagato per un mondo sempre più comodo e servizi sempre più “accessibili”? O il momento della consapevolezza, e della reazione, deve ancora arrivare? E soprattutto: come ci si può arrivare?

Siamo nell’era de “L’uomo senza proprietà”, che Jacopo Franchi descrive nel suo nuovo saggio edito da Egea.

Classe 1987, Franchi è un acuto osservatore del mondo digitale non solo nel lavoro (è social media manager dell’hub di innovazione Cariplo Factory, fondatore del portale Umanesimo Digitale e membro del Digital Wellbeing Lab dell’Università Bicocca) ma anche come saggista. “L’uomo senza proprietà” è la terza tappa di un viaggio iniziato nel 2019 e giunto a uno snodo cruciale: comprendere in quali direzioni si stia evolvendo il rapporto tra le persone e le “cose” mediate dalla tecnologia.

Nel contesto attuale, dove la nostra identità è sempre più legata alla proprietà digitale, Franchi avverte che il rapporto tra proprietà e libertà è destinato a cambiare profondamente. La digitalizzazione degli oggetti domestici, un tempo simbolo di proprietà privata, sta erodendo il controllo esclusivo che ne avevamo. L’autore suggerisce che la consapevolezza e la reazione a questa trasformazione siano ancora in divenire, e lascia intravedere la possibilità di una nuova rivoluzione che potrebbe iniziare proprio dalle mura domestiche.

In un mondo dove la varietà di oggetti digitali supera quella degli analogici, coloro che scelgono di “disconnettersi” affrontano il rischio di non mantenere lo stesso tenore di vita degli altri, di rimanere nella condizione di un gruppo indistinto e inerte

I “disconnessi”, però, potrebbero anche dare origine a nuovi movimenti politici e sociali. Franchi conclude che il futuro potrebbe vedere l’emergere di organizzazioni che si oppongono alla digitalizzazione totale, promuovendo un modello di consumo basato sull’accesso anziché sul possesso esclusivo.

“L’uomo senza proprietà” è un invito alla riflessione su come la tecnologia stia ridefinendo il concetto di proprietà e controllo, con implicazioni profonde per la nostra libertà.

PERCHE’ LA PERDITA DI CONTROLLO SUGLI OGGETTI DIGITALI E’ UNA PERDITA DI CONTROLLO SUI DATI (di Jacopo Franchi)

Piovve così tanto che, alla fine, la “nuvola” cominciò a dissolversi: si potrebbe riassumere con questa piccola provocazione la tendenza a riportare all’interno di rigidi confini nazionali e in luoghi ben definiti i dati – personali e non – a lungo liberi di muoversi in un indistinto “cloud” globale. Se la tendenza è tuttora in atto e non è ancora possibile prevederne gli esiti finali, nondimeno è interessante soffermarsi sul fatto che il luogo – fisico e virtuale – in cui i dati vengono inviati, conservati, rielaborati non è più una variabile indipendente nello sviluppo e nella fornitura di servizi digitali, e che con ogni probabilità il controllo e la trasparenza sulla esatta localizzazione dei dati diventerà un tema chiave negli anni a venire.

Nel mio libro “L’uomo senza proprietà. Chi possiede veramente gli oggetti digitali?” (Egea, 2024) il tema della mobilità dei dati rispetto al luogo in cui questi ultimi vengono prodotti è una caratteristica chiave delle nuove modalità di relazione tra persone e oggetti dotati di un’anima digitale. La consapevolezza che i dati condivisi nel contesto di un ambiente domestico – e quindi ritenuto “privato” per definizione – con dispositivi quali smart speaker, elettrodomestici, giocattoli, videocamere connesse solo raramente sono dati che vengono conservati “in locale”, all’interno dei dispositivi stessi, rappresenta una netta soluzione di continuità con il passato. Man mano che la smart home prende forma, si materializza anche una condizione inedita nella quale le informazioni riguardanti abitudini, conversazioni, comportamenti privati escono – non solo metaforicamente – dalla “porta di casa” per essere conservati in un altrove lontano e indefinito agli occhi della maggior parte delle persone.

Dal mio punto di vista, la consapevolezza circa le criticità annesse alla circolazione dei dati ha cominciato a emergere in maniera diffusa al di fuori del ristretto circolo degli addetti ai lavori in seguito alla storica sentenza Schrems II del 2020. Al di là delle conseguenze immediate di quella sentenza, con cui la Corte di Giustizia europea ha invalidato la decisione di adeguatezza del Privacy Shield, gli effetti di lungo periodo sono stati quelli di mettere in discussione un modello di circolazione dei dati tuttora opaco e indipendente dalla volontà dei singoli individui.

Dove sono conservate, esattamente, le foto condivise dagli utenti europei di Facebook nel corso di quasi vent’anni di utilizzo della piattaforma? Dove sono archiviate i backup delle chat di servizi come Whatsapp utilizzati da milioni di persone? In quali server di quali aziende in quali città sono conservati i dati prodotti dallo scambio quotidiano di informazioni con gli smart speaker? La domanda, naturale a farsi, non prevede al momento strumenti per una risposta immediata ai diretti interessati, ma solo generiche indicazioni spaziali in cui ogni luogo sembra essere intercambiabile.

Eppure, qualcosa sta cominciando a cambiare. Dagli oltre 12 miliardi di euro annunciati da TikTok per la costruzione di un nuovo datacenter in Norvegia in cui conservare i dati degli utenti europei alle indiscrezioni di Reuters in merito alla costruzione di nuovi datacenter di Amazon Web Services in Italia – e che fanno seguito all’annuncio di qualche mese fa di archiviare i dati di clienti pubblici e privati attivi in settori altamente regolamentati su server situati nell’UE –  è possibile interpretare le notizie di settore alla luce di una crescente pressione nei confronti delle Big Tech, affinché esse conservino i dati degli utenti nel luogo più vicino possibile rispetto a dove essi sono stati inizialmente prodotti. Se la “nuvola”, insomma, non è prossima a dissolversi, nondimeno essa sembra destinata a soffermarsi più a lungo vicino ai nostri cieli, anche se non è dato sapere esattamente “quanto” vicino a noi.

Su questa falsariga è possibile leggere, in controluce, anche la decisione di Apple di promuovere sul mercato la propria intelligenza artificiale con la promessa di una maggiore tutela della privacy rispetto a quella dei più diretti concorrenti. Apple, infatti, in occasione dell’ultima Conferenza globale degli sviluppatori ha assunto l’impegno di non conservare né riutilizzare i dati elaborati in cloud per l’addestramento delle AI, e di processare le richieste degli utenti unicamente su server che utilizzano Apple Silicon. Da qui alla promessa di avvicinare quanto più possibile i server stessi alle persone, l’etereo cloud al luogo di provenienza dei dati dei clienti il passo potrebbe essere breve, in ragione di una spinta globale – animata da nuove e vecchie conflittualità geopolitiche – a ridisegnare i confini tra Paesi considerati sicuri e quelli a rischio, attuale o anche solo potenziale.

La dimensione del problema della localizzazione dei dati estratti da dispositivi connessi, tuttavia, potrebbe essere largamente sottostimata. Come ho evidenziato nel mio libro “L’uomo senza proprietà”, il rischio di concentrare l’attenzione solo sulle notizie riguardanti le aziende più grandi e i servizi più conosciuti è quello di non considerare la proliferazione di nuovi oggetti e servizi connessi provenienti da aziende minori e meno attenzionate dalle autorità. La crescente diffusione di oggetti connessi all’interno delle abitazioni private ha come conseguenza il moltiplicarsi delle attività di estrazione di dati da un’infinita di punti di accesso e sensori connessi alla Rete, la cui destinazione ultima potrebbe non essere quella di un server localizzato in UE, né in condizioni di assoluta inaccessibilità da parte di terzi.

Il timore maggiore è dato, in questo momento, dal fatto che la proliferazione di schermi e oggetti connessi sta portando all’estrazione continuativa e all’emigrazione di dati personali di persone che non sono nelle condizioni di comprendere il significato di questi processi e di prendere decisioni consapevoli e informate circa le loro conseguenze.

Mi riferisco al continuo tracciamento che viene operato dagli oggetti connessi verso bambini, adolescenti, anziani, persone in condizioni di vulnerabilità, non più limitato al ristretto raggio d’azione di un computer o uno smartphone, ma continuamente in attività mediante i microfoni e le videocamere di smart speaker, citofoni, termostati, frigoriferi, televisioni, aspirapolveri, telecamere connesse. Dati che stanno prendendo – in questo stesso momento – la via di fuga verso altri Paesi, e che solo a costo di uno sforzo individuale di richiesta di cancellazione possono essere richiamati “indietro”, almeno sulla carta.

In questo senso, la perdita di controllo esclusivo sugli oggetti digitali che il titolo del mio saggio vuole suggerire è, tra le altre cose, una perdita di controllo sui dati prodotti, estratti ed elaborati da questi ultimi, se non in senso assoluto quantomeno dal punto di vista della loro esatta localizzazione nello spazio.

Non sapere dove si trovano esattamente tutte le proprie tracce digitali, non poter avere una immediata consapevolezza di quanti e quali siano i sensori attivi in un ambiente popolato da oggetti connessi e quali siano, tra questi ultimi, quelli che non conservano i dati all’interno del Paese di residenza sono tutte premesse che mettono fortemente in discussione qualsiasi pretesa di un controllo completo sul proprio “doppio” digitale, o perlomeno della sua conservazione entro limiti ben definiti e conosciuti.

Soprattutto se a essere bersaglio di questa continua estrazione e spoliazione sono persone non in grado di comprenderne e prevederne tutte le possibili conseguenze in un futuro lontano ma non poi così distante. Le nuvole, si sa, sembrano immobili solo in apparenza.

Jacopo Franchi
L’UOMO SENZA PROPRIETA’ – Chi possiede veramente gli oggetti digitali?
EGEA – 17,99 euro (e-pub) 22 euro (carta)