Biodiversità e crisi ambientale, il ruolo cruciale delle aziende

scritto da il 24 Ottobre 2023

Post di Alessandro Leonardi, amministratore delegato dello spin-off dell’Università di Padova Etifor* – 

In occasione dell’ultimo European Business and Nature Summit, tenutosi a Milano con la partecipazione di più di 900 aziende, istituzioni finanziarie e organizzazioni Italiane ed europee, è emerso che il mondo del business e della finanza vede le attività economiche come profondamente collegate non solo alla quantità di CO2 in atmosfera, ma soprattutto alla conservazione degli ecosistemi, nonché alla qualità e quantità di acqua o altri elementi essenziali per la vita sul nostro pianeta.

Per visualizzare il doppio filo che lega questi due mondi, business e ambiente, basti pensare al fatto che più della metà del PIL globale, pari a 44.000 miliardi di dollari, è generato da attività che dipendono unicamente dalla natura e dai suoi servizi, coinvolgendo settori chiave quali, ad esempio, energia e agricoltura. Parola di World Economic Forum.

Nel suo ultimo Global Risks Report, si legge inoltre che 4 dei 5 principali rischi globali che affronteremo nei prossimi 10 anni saranno proprio di natura ambientale: la perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi si trovano al quarto posto, preceduti dall’incapacità di mitigare il cambiamento climatico, dal mancato adattamento ai cambiamenti climatici e da disastri naturali e condizioni meteorologiche estreme. Secondo le stime della Banca Mondiale, la sola crisi della biodiversità potrebbe comportare una contrazione del PIL globale fino a 2,7 trilioni di dollari entro il 2030, ovvero una riduzione annua del 2,3%.

Biodiversità: ecco le cinque cause principali

Le cinque cause principali della perdita di biodiversità sono: il cambio dell’uso del suolo, lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali, le specie invasive, l’inquinamento e il cambiamento climatico. I rischi operativi ai quali si va incontro a fronte del danneggiamento del patrimonio naturale spaziano dall’aumento dei costi di approvvigionamento al deterioramento dei prodotti, dall’incapacità di pianificare la produzione alla perdita di valore dei terreni, senza contare i costi di intervento per ripristinare le aree danneggiate e garantire la sopravvivenza delle comunità locali: piccole e onerosissime pezze utilizzate per rattoppare uno squarcio enorme. Ad oggi, per proteggere la biodiversità a livello globale, infatti, i livelli di finanziamento esistenti coprono una percentuale che oscilla tra il 16 e il 19% della necessità complessiva.

Se riparare i danni al clima è complicato, ripristinare la natura lo è molto di più. La buona notizia, però, è che conviene a tutti investire e contribuire ad un futuro “nature-positive”. Per farlo, occorre prima sfatare definitivamente il mito che vede le imprese come attori quasi esclusivi delle crisi ambientali in atto. Le cause sono sistemiche e il settore privato ha un interesse diretto nel contribuire a modificare il corso degli eventi, essendo tra le principali vittime in caso di inazione o di raggiungimento dei punti di non ritorno.

Gli obiettivi globali per la biodiversità

Nel 2022 è stato approvato il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, il corrispettivo per la biodiversità dell’Accordo di Parigi sul clima. Per la prima volta sono stati stabiliti degli obiettivi mondiali di conservazione e ripristino della biodiversità puntando alla rinascita del 30% degli ecosistemi degradati entro il 2030 e demandando ai governi la responsabilità di sviluppare piani e strategie nazionali che coinvolgano il settore privato e della finanza. In quest’ottica, a luglio 2023, la Commissione Europea ha approvato la proposta del Regolamento sul Ripristino della Natura (Nature Restoration Law), che prevede l’attuazione di misure di conservazione che tutelino almeno il 20% del territorio marino e terrestre europeo entro il 2030.

Ma è il Regolamento sulla tassonomia ambientale, già entrato in vigore nel 2022, ad aprire ad effetti più impattanti. Si tratta di una vera e propria lista degli investimenti ritenuti sostenibili in Europa dal punto di vista ambientale. Le aziende che intendono quindi ricevere investimenti classificati come “sostenibili”, dovranno dimostrare dal punto di vista tecnico-scientifico il loro impegno nella riduzione degli impatti sulla biodiversità, acqua e clima.

Quel che possono fare le aziende, in concreto

Esistono benefici concreti come conseguenza delle azioni di ripristino della biodiversità? Sì, tanto per le aziende quanto per la collettività. A livello italiano, se le imprese investissero in tutela e ripristino della biodiversità la modica cifra di 93 euro all’anno per ogni milione di fatturato, sarebbe possibile ripristinare in meno di 30 anni il 90% degli habitat in cattivo stato di conservazione, ovvero 723.500 ettari, un’area di dimensioni poco superiori all’intero Trentino Alto Adige. Il costo annuale complessivo per sostenere azioni di recupero è pari a 260 milioni di euro, solamente lo 0,013% del PIL nazionale. Per ciascun euro investito, invece, si stima un ritorno in benefici per la collettività pari a 14,7 euro. Da un’analisi del nostro team basata sull’Impact Assessment Study dell’UE, emerge che le attività di recupero e conservazione della biodiversità in Italia porterebbero entro il 2050 a benefici economici complessivi per quasi 70 miliardi di euro.

Ciò dipende dalla capacità degli ecosistemi ricchi di biodiversità di fornire servizi ecosistemici, come lo stoccaggio e il sequestro del carbonio, la regolazione della qualità dell’acqua e il controllo dell’erosione, l’impollinazione, la produzione di materie prime rinnovabili (come legno e biomasse a uso energetico, cibo e fibre), la gestione del rischio di alluvioni e servizi culturali, ricreativi o turistici.

Competitività e biodiversità, il terreno di confronto per il settore privato

Gli approcci nature-positive, ovvero orientati a misurare e ridurre fino ad evitare gli impatti su biodiversità, clima, e acqua per poi rigenerare, saranno un fronte su cui il settore privato misurerà la sua competitività nel prossimo decennio. Tuttavia, per evitare gli errori commessi in passato con roboanti dichiarazioni d’intenti, si dovrà prestare massima attenzione all’utilizzo di standard e linee guida internazionali riconosciute. Alcuni esempi? Il Natural Capital Protocol, per esempio, aiuta le aziende ad identificare, misurare e valorizzare gli impatti sulle risorse naturali e la dipendenza dalle stesse. Il Science Based Targets Network (SBTN) supporta invece nel definire degli obiettivi di riduzione di tali impatti e quelli di rigenerazione in maniera scientifica.

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(Foto Ap)

La Task forse on Nature-related Financial Disclosures aiuta le organizzazioni a comunicare e riportare informazioni riguardanti gli impatti e le azioni di riduzione e rigenerazione, così da evitare rischi legati a comunicazioni non veritiere e forvianti, che saranno ancora più rischiose una volta approvata la direttiva sulle comunicazioni ambientali (Green Claims Directive). In linea con tale direttiva, le aziende potranno dichiarare, supportate dai suddetti standard, di “contribuire ad un futuro nature-positive”. In Etifor abbiamo sviluppato un approccio di consulenza semplificato dedicato alle aziende interessate ad intraprendere questo tipo di percorso.

Trenta standard locali e internazionali

Ma come possono contribuire le realtà che non sono direttamente collegate all’uso del suolo? Come per il clima, si stanno sviluppando strumenti di compensazione per gli impatti sulla natura, su cui le aziende possono investire. Una sessione del Summit è stata dedicata all’argomento e quanto emerso è piuttosto incoraggiante: sono già 30 gli standard locali e internazionali per certificare progetti ad impatto sulla biodiversità.

Lo standard FSC (Forest Stewardship Council, principale standard internazionale dedicato alla certificazione delle foreste, filiere e servizi ecosistemici collegati) ha presentato i risultati di oltre 80 progetti nel mondo che riescono a dimostrare impatti tangibili sulla biodiversità. Insieme ad altri standard e iniziative come Plan Vivo e CDC in Francia, si sono riuniti in una Global Biodiversity Credit Alliance, per iniziare a costruire un percorso di garanzia di elevati standard qualitativi, per scongiurare i recenti scandali legati ai crediti di carbonio e al loro utilizzo.

C’è dunque la certezza che i crediti di biodiversità sono necessari per permettere il raggiungimento degli obiettivi di ripristino della natura, ma non a qualsiasi prezzo. L’integrità e la garanzia dei sistemi, meglio se regolati dai governi, sono la condizione per lo sviluppo del mercato. L’unica certezza è che dobbiamo agire ora, scommettendo sulle alleanze pubblico-private, sulle sperimentazioni, sull’allineamento collettivo alle migliori pratiche internazionali per salvare il capitale naturale da cui tutti noi dipendiamo.

*società di consulenza ambientale e B Corp certificata attiva a livello internazionale con esperienza decennale nella gestione di aree naturali e nell’assistenza alle imprese verso la transizione ad una economia nature-positive.