categoria: Draghi e gnomi
Draghi, l’ottimismo sull’Europa e cosa insegna la storia americana
Post degli avvocati Matteo Bonelli e Matteo Erede. Il primo si occupa di societario e contrattualistica commerciale. Il secondo di contenzioso societario e corporate governance ed è Adjunct Professor presso l’Università Bocconi di Milano –
La notizia del recente incarico a Mario Draghi per la redazione di un rapporto sulla competitività dell’Unione Europea è stata accolta dai media nazionali con i soliti toni devoti e trepidanti con cui si usa parlare di qualsiasi cosa faccia o dica Mario Draghi. Non è facile, d’altronde, resistere alla tentazione di venerarlo, non solo perché è l’unico “divo” italiano di standing internazionale – al cui confronto Damiano dei Manneskin sembra una star del neomelodico napoletano – ma anche perché il suo senso dell’umorismo sottile, la sua empatia felpata, il suo garbo aristocratico sono così lontani dalla gestualità e dalla retorica dei nostri leader da farcelo apparire come un angelo caduto dal cielo.
Super Mario Draghi e l’incantesimo da rompere
Sentiamo però il dovere di provare a rompere quest’incantesimo e chiederci se questa nuova impresa del nostro Super Mario possa davvero servire a qualcosa, perché se c’è qualcosa di cui tutti dovremmo essere già consapevoli sono i problemi di competitività dell’Unione Europea.
E’ stato scritto che Ursula von der Leyen ha deciso di affidargli quest’incarico dopo aver letto un suo intervento sull’Economist, in cui si è dichiarato cautamente ottimista sulla possibilità che i paesi dell’Unione Europea convergano verso una (parziale) unione fiscale, anche in ragione delle sfide comuni più recenti (pandemia, transizione verde e digitale, energia, difesa, etc.) che, ovviamente, non possono trovare risposte nazionali. Per questo Draghi ha anche evidenziato l’esigenza che certi poteri di spesa siano attribuiti direttamente all’Unione Europea, non solo per gestire meglio i programmi di spesa, come negli Stati Uniti, ma anche per superare i vincoli nazionali agli aiuti di stato.
Tutto vero, tutto giusto. Ma queste cose già si sapevano da tempo. Dunque, a meno che le parole di Draghi non creino nuovamente l’incantesimo del “whatever it takes”, è improbabile che tutti i paesi – perché per fare queste cose serve il consenso di tutti – intendano seguirle, dato che le strategie dei paesi UE sono sempre state nel solco dei giochi non cooperativi, anche per decisioni ben meno importanti.
La sovranità fiscale e la propensione al sabotaggio di progetti buoni e giusti
Se l’Unione Europea non riesce a formare una squadra nemmeno nei tornei sportivi, cosa mai potrebbe indurre i suoi membri a cedere anche solo una parte della propria sovranità fiscale? Abbiamo già visto progetti buoni e giusti, e pure facili, naufragare per via dell’opposizione aperta o sotterranea di pochi, se non di singoli, che non avevano alcun interesse a realizzarli. Tant’è che questa propensione al sabotaggio e le frastornanti procedure su cui prospera sono ormai entrate nel linguaggio di barzellette e siparietti.
Da qualche anno a Bruxelles va in scena il Schuman show, una commedia teatrale con un cast di ex funzionari europei e giornalisti che ironizza sulle disfunzioni dei processi decisionali dell’Unione Europea, sebbene la scena più esilarante sia forse quella in cui Sir Humphrey, nella serie televisiva Yes Minister, spiega al Ministro Hacker la ragione per cui il Regno Unito è entrato nell’Unione Europea, che poi è la stessa della Brexit.
Per esempio: le differenze tra Europa e Stati Uniti
Nel provare a districarci da questo groviglio, tendiamo però a dimenticare che un’Europa dei popoli e non delle nazioni esiste già da oltre due secoli. Che cosa sono, infatti, gli Stati Uniti, se non un’Europa d’oltremare? E perché sono diventati più competitivi, egemoni e prosperi di noi? Si potrebbe rispondere banalmente che loro, diversamente da noi, hanno goduto di due secoli di pace ininterrotta – tranne quattro anni di guerra civile – e di risorse sostanzialmente illimitate. Ma per un’analisi più profonda e complessa non basterebbero le menti di Gibbon, Braudel e Harari.
Sicché non ci avventuriamo in ardite speculazioni sulla superiorità dell’ordine borghese e mercantile su quello aristocratico, sul dominio degli oceani e sulla forza della libertà individuale. Ci limitiamo però a osservare che le regole su cui furono fondati gli Stati Uniti sono molto diverse quelle su cui fu fondata l’Unione Europea.
Gli Stati Uniti partirono da ciò che l’Unione Europea non riesce o fatica ancora a realizzare: una moneta unica, una difesa e politica estera comune e imposte federali per sostenerle. Per l’Unione Europea si partì invece da aspetti che nella costituzione degli Stati Uniti non furono neanche menzionati: il libero scambio, l’unione doganale e la tutela della concorrenza. Anche per questo si sente spesso dire che gli Stati Uniti furono fondati su ideali, mentre l’Unione Europea fu fondata su interessi. In realtà entrambi furono fondati, come è logico che sia, sia su ideali sia su interessi. Ma diversi.
Ideali e interessi che ci dividono dall’Europa d’oltremare
Gli ideali degli Stati Uniti derivano dallo spirito libertario e indomito dei loro padri fondatori, che ancora alimenta la diffidenza dei cittadini statunitensi per il potere centrale, l’autodeterminazione delle comunità, l’avversione ai sussidi, per culminare nelle sue degenerazioni, come la detenzione sfrenata di armi, i consumi straripanti e la violenza nelle scuole. Quelli dell’Unione Europea derivano invece dallo sgomento e dall’orrore di due guerre e un genocidio scatenati da paesi che si reputavano fra più civili al mondo; tant’è che gli interessi economici furono visti come un mezzo per contenerne la forza distruttiva e le ambizioni egemoniche, più che come un fine. Ben più pragmatiche, invece, furono le ragioni che indussero gli Stati Uniti a dotarsi fin dall’inizio di una difesa e politica estera comune, fondate sulla necessità di unire le forze, giammai contenerle.
Si potrebbe così sostenere che gli Stati Uniti nacquero per l’eccessiva debolezza delle ex-colonie britanniche, mentre l’Unione Europea per l’eccesiva forza degli stati nazionali europei. Due punti di partenza, dunque, diametralmente opposti, che potrebbero spiegare processi decisionali più snelli e risolutivi negli Stati Uniti e più farraginosi e inconcludenti nell’Unione Europea. Se così fosse, dovremmo rammaricarci ancora dei danni che l’idea ottocentesca di stato nazionale – che resta un’idea feticcio – continua a fare dopo aver provocato guerre sanguinose per oltre due secoli.
Dall’idea di stato nazionale alla difesa dell’italianità
Ci si potrebbe chiedere perché l’idea di stato nazionale si sia formata proprio in una regione del mondo come l’Europa, i cui i capi di stato erano tutti imparentati e i cui popoli si son sempre mischiati. Ma ciò, per quanto interessante, ci porterebbe lontano. Ciò che più preoccupa è che quest’idea artificiale, antistorica e sempre più anacronistica, continui a rifluire nel linguaggio politico intossicandone l’azione. Così si è ormai tornati a ricorrere alla stracca retorica della difesa dell’italianità, sebbene la particolarità dell’Italia derivi dal suo esatto opposto, vale a dire la varietà del territorio, della cucina, della musica e delle tradizioni. Narrazioni analoghe si sono ormai diffuse in tutti i paesi dell’Unione Europea e non depongono certo a favore di una maggiore integrazione, come peraltro anche Draghi sembra riconoscere nella parte finale del suo intervento sull’Economist.
Perché Draghi è ottimista sul futuro dell’integrazione europea?
In questo contesto si fatica a comprendere l’ottimismo di Draghi sul futuro dell’integrazione europea, soprattutto perché l’argomento principale del suo convincimento deriva dall’assenza di alternative valide. Ma se il nazionalismo ci ha già trascinati per ben due volte in una follia che ha seminato morte e distruzione, non sarà certo fermato da argomenti utilitaristici. Una prospettiva più verosimile potrebbe derivare dalla consapevolezza della debolezza e vulnerabilità degli stati europei nell’attuale scenario geopolitico, che è poi la ragione che sostenne anche l’integrazione degli Stati Uniti.
D’altra parte, che la paura spinga all’integrazione più del pragmatismo lo si evince anche oggi non tanto dalle saghe del Signore degli Anelli o del Trono di Spade, quanto dall’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia, e prima ancora di molti paesi dell’ex Patto di Varsavia. In questa prospettiva la notizia incoraggiante (si fa per dire) è non solo lo scoppio di una guerra imprevista alle porte dell’Europa, ma anche il fatto che i paesi europei sono sempre più irrilevanti nel mondo, non solo sul piano geopolitico, ma anche economico e tecnologico.
L’irrilevanza dei paesi europei può dare una mano a Draghi?
Sul piano geopolitico, infatti, l’irrilevanza dei paesi europei è ormai risalente ed è la conseguenza inevitabile della leadership degli Stati Uniti nel blocco occidentale, a cui si è opposta la leadership della Russia nel blocco socialista durante la Guerra Fredda, e oggi sempre più quella della Cina nel blocco dei BRICS, che ha determinato uno spostamento del baricentro geopolitico mondiale nel Pacifico, indebolendo ulteriormente i paesi europei.
Nel settore tecnologico, invece, l’irrilevanza dei paesi europei è testimoniata non solo dalla sostanziale assenza di imprese europee importanti in questo settore, ma anche da una generazione di nuove imprese tecnologiche di gran lunga inferiore a quella di Stati Uniti, Cina e (sempre più) India.
Infine, la sempre minore rilevanza dei paesi europei nell’economia mondiale è testimoniata non solo dall’incidenza trascurabile di ciascuno di essi nell’economia mondiale, ma anche dal calo dell’incidenza complessiva dell’Europa.
C’è dunque da sperare che nel rapporto di Draghi questa situazione emerga in modo impietoso, se non allarmante, e che la nostra reazione possa essere, almeno questa volta, seria e non grave.