È a Pechino la nuova Lehman?

scritto da il 14 Gennaio 2016

Le recenti cronache finanziarie sono state monopolizzate dai timori legati alla brusca caduta della Borsa cinese. George Soros, tra gli esponenti della finanza internazionale più conosciuti al mondo, ha dichiarato che le attuali turbolenze presenti sui mercati ricordano molto quelle viste nel 2008. Ci troviamo quindi davanti a una nuova crisi finanziaria globale, con effetti altrettanto devastanti come quelli registrati dopo il default della Lehman Brothers? Pur se rispondere a questa domanda è estremamente difficile possiamo in ogni caso fare qualche considerazione sul rischio di un nuovo collasso della finanza internazionale.

Il legame con la crisi finanziaria recente

Le turbolenze che stiamo vivendo in queste settimane, e che già si erano affacciate nell’estate del 2015, hanno radici profonde e sono legate sostanzialmente ad alcuni squilibri globali che già nel 2007/2008 avevano determinato la crisi negli Stati Uniti, che poi si è propagata in tutto il mondo (per una trattazione completa su questo tema si veda Milani, 2015, capitolo 1).

Tali squilibri prendono impulso proprio in Cina negli anni ‘80. Con Deng Xiaoping viene adottata la cosiddetta economia socialista di mercato, attraverso cui vengono introdotte una serie di riforme economiche volte a trasformare profondamente l’economia. In quel momento si avvia un immenso processo di industrializzazione che spinge, nell’arco di 30 anni, circa mezzo miliardo di persone a spostarsi dalle campagne alle città (con conseguenze non trascurabili anche sul piano ambientale, come testimoniato dalla pessima qualità dell’aria di Pechino).

La grande disponibilità di manodopera a basso costo, una politica monetaria volta a svalutare il tasso di cambio rispetto al dollaro e l’ingresso nella World Trade Organization (WTO) agli inizi del 2000 hanno determinato quelle condizioni necessarie affinché la Cina potesse inondare i mercati internazionali dei suoi prodotti.

Principale mercato di sbocco, nella prima parte degli anni 2000, sono stati gli Usa. Al flusso di merci è corrisposto anche un flusso di capitali. Si è creato quindi un paradosso: le famiglie cinesi povere, con livelli di consumo bassissimi e alti saggi di risparmi, indispensabili per far fronte alle incertezze della vita, hanno finanziato i consumi spasmodici delle ricche (soprattutto in termini relativi) famiglie americane.

Quando anche i ceti meno abbienti americani hanno voluto la loro parte, acquistando immobili che non potevano permettersi grazie ai mutui subprime, la strada verso la crisi del 2007/2008 era oramai segnata.

La visione post-crisi di Europa e paesi emergenti

Molti paesi in giro per il mondo hanno inizialmente ritenuto che la crisi dei mutui subprime del 2007 fosse un problema esclusivamente statunitense. I primi ad accorgersi di questa svista sono stati gli europei. Con il default di Lehman, nel 2008, il contagio attraverso le crisi bancarie è stato velocissimo e di lì a poco si è esteso anche a interi Stati sovrani, come Grecia, Portogallo, Irlanda, Spagna e, inesorabilmente, anche Italia. I difetti nella creazione dell’Area euro, in cui all’ottima idea di dotarsi di una moneta unica non ha fatto però seguito la volontà di condividere le politiche fiscali, hanno anch’essi contribuito a determinare squilibri globali, che tutt’ora persistono. La Germania continua infatti ad avere un gigantesco avanzo della bilancia commerciale, il più grande al mondo, superiore anche a quello della Cina.

Il Dragone cinese, dopo essere cresciuto per molti anni sotto la spinta delle importazioni statunitensi, ha cercato di stimolare la domanda interna puntando inizialmente sugli investimenti pubblici e privati. I problemi di burocrazia e corruzione di un Paese immenso come la Cina hanno però implicato la dispersione di molte risorse, e il dissesto finanziario di molti enti locali.

Nel tentativo di dare un impulso ai consumi delle famiglie si è quindi deciso di “dopare” i mercati azionari, favorendo ad esempio l’indebitamento con la finalità di acquistare azioni, i cui prezzi sembravano a molti dover crescere per sempre. Attraverso i guadagni di Borsa, nella logica delle autorità cinesi, le famiglie avrebbero poi potuto velocemente aumentare il loro stile di vita.

Queste politiche avventate hanno però fatto gonfiare troppo rapidamente la bolla azionaria, facendola inesorabilmente esplodere nell’arco di pochi mesi.

Anche gli altri Paesi emergenti, asiatici e sudamericani in particolare, si sono sentiti al riparo dallo scoppio della crisi negli Stati Uniti. Come la Cina, infatti, questi Paesi nel corso degli anni 2000 hanno accumulato ingenti quantità di riserve in valuta estera per far fronte ai rischi di fuga di capitali. Paradossalmente la crisi statunitense è stata vista da molte imprese degli Emergenti come un’opportunità: la risposta delle Federal Reserve, che ha inondato i mercati di liquidità, ha offerto infatti la possibilità di indebitarsi, in dollari, a tassi bassissimi.

Il debito globale, come conseguenza, invece di ridursi dopo la crisi finanziaria del 2007/2008, è andato ulteriormente crescendo e, secondo le stime di McKinsey, nel 2014 è aumentato di 54 trilioni di dollari rispetto al 2007 (si veda Morya Longo su Il Sole 24ORE del 12 gennaio 2016). Con il cambiamento dell’intonazione della politica monetaria da parte della Fed, il rischio che molte società dei Paesi emergenti non siano in grado di far fronte al carico dei debiti accumulati in questi anni è molto concreto.

Conclusioni

Dalla sintesi fin qui presentata non sembrerebbero esserci molti elementi per stare tranquilli. In realtà, a guadar bene, qualche elemento positivo c’è. Gli Stati Uniti, i primi ad essere colpiti, sono stati anche i primi a mettere in moto alcuni aggiustamenti. Per cominciare si è intervenuto sulle banche, evitando il collasso di quelle di maggiori dimensioni e favorendone la pulizia dei bilanci dai cosiddetti asset tossici. Anche la politica monetaria ultra-espansiva, adottata fin dagli inizi del 2009 con il Quantitative easing, è stata funzionale a questo obiettivo.

In Europa, purtroppo, l’assenza di un sistema di regole bancario unico al momento dello scoppio della crisi e le divisioni legate ai miopi interessi nazionali, non hanno permesso di seguire rapidamente questa strada, a cui si è giunti solo dopo 5/6 anni e solo parzialmente (basti pensare al dibattito ancora aperto sulla garanzia unica sui depositi bancari).

Negli Usa, inoltre, sono state adottate importanti politiche di stimolo fiscale, anche se, come sottolineato dai due premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, si poteva probabilmente fare di più. In Europa, dall’altro lato, gli stimoli fiscali sono stati molto blandi e quasi subito eliminati dopo l’esplosione della crisi greca nell’ottobre del 2009.

In definitiva, da questa crisi gli Stati Uniti sembrano uscire con una leadership sull’economia globale sostanzialmente rafforzata, e forse questa è l’unica àncora di salvataggio alla quale al momento è possibile aggrapparsi.

Twitter @MilaniC