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Governo e banche, ecco i 10 errori della tassa sugli extraprofitti
Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali –
Una norma che fa discutere, ma che appaga la pancia di chi non si ferma a riflettere. E che non risolve il problema cui si voleva dare una soluzione, rischiando invece di acuirne gli effetti negativi. E, peraltro, di misure alternative – praticabili – ve n’erano.
Insomma, una vera “frittata” estiva di cui, francamente, non ce n’era bisogno (non almeno in questi termini), che oltretutto mina la credibilità legislativa del nostro sistema- Paese, soprattutto vedendo le reazioni estere. Al contrario di quelle politico-mediatiche, in cui una larga fetta del nostro Parlamento si è ritrovato concorde.
Solo che detta convergenza avviene su una norma (i) tardiva (avrebbe ben potuto essere applicata prima, così non esponendosi alle critiche di averlo fatto per avidità di gettito), (ii) retroattiva (toccando anche il bilancio 2022 già chiuso; in altri momenti, taluni commentatori si sarebbero stracciati le vesti per la violazione – ennesima, invero – dello statuto del contribuente), (iii) su un valore “lordo” (il margine di interessi, che ben può discendere anche da fattori virtuosi, non solo dall’aritmetica conseguente alle modifiche dei tassi BCE), (iv) senza considerare le (ben possibili) perdite su crediti legate a quei crediti su cui maturano quei tassi, (v) prescindendo dal momentum errato (i.e. attuali segnali di un credit crunch, che rischia di venire così acuito, in funzione della minor propensione ad erogare crediti “incerti” a fronte di una tassazione futura ora “altrettanto incerta”),
Extraprofitti, banche e perdita di credibilità internazionale
(vi) discutibile nell’an (i.e. i “margini ingiusti”, stando alle parole della Premier). Poiché non v’è evidenza della correlazione fra le percentuali di crescita-soglia (5% per il 2022, 10% per il 2023; calcolati sul 2021) e l’effettivo effetto sui conti economici delle banche (a meno che non si voglia dire che la crescita annua di redditività di una banca, che ben può derivare da aumento di volumi, nda) sia “massimo” del 5% (lineare) annuo, (vii) distorsiva sul risparmio (i.e. vedasi le reazioni – e i cali – dei titoli bancari in borsa) detenuto dai cittadini tramite propri investimenti e/o fondi di investimento e/o prodotti assicurativi/previdenziali, (ix) noncurante della perdita (in termini di stabilità legislativa, in un Paese dal Total Tax Rate già elevatissimo e poco competitivo) di credibilità internazionale degli investitori, non solo finanziari, verso il nostro Paese.
E, in più, non risolve il problema di partenza.
Già, perché, se la “giustificazione” di un siffatto intervento fosse stata la “forbice di tassi”, cioè “il mancato allineamento fra tassi attivi (interessi applicati ai finanziamenti) e tassi passivi (interessi sui depositi e conti correnti, cd. raccolta diretta)”, è lapalissiano come questa misura (i) non ristora i mancati aumenti dei tassi sui depositi, (ii) non genera un effetto di riallineamento della forbice dei tassi stessi, (iii) non determinerà una riduzione dei tassi applicati ai finanziamenti.
La correzione in corsa di una scelta non ben ponderata
Non certo se verranno attribuite, come detto, nella prima conferenza stampa immediatamente successiva, a “taglio delle tasse” (una misura una tantum non può finanziare una misura a regime). Peraltro, le informazioni postume al Consiglio dei ministri (al momento della stesura del presente articolo il provvedimento deciso lunedì non è ancora in Gazzetta Ufficiale; pessima abitudine italica, peraltro) dicono che le entrate straordinarie andranno a finanziare un fondo di garanzia per nuovi prestiti e che, a buoi scappati (i.e. a crolli di borsa avvenuti) vi sarà un tetto massimo al prelievo (che è del 40% dell’importo che supera le crescita-soglia prima indicate) pari allo 0,1% del totale attivo delle banche. Quasi a “correggere in corsa” qualcosa di non ben ponderato.
A meno che, a voler leggere tra le righe delle esternazioni politiche successive, la “ratio” del provvedimento non stia proprio nel voler colpire “in sé” quei (presunti) “margini ingiusti”, quei (presunti) comportamenti “non etici”. Solo che, anche sotto questo profilo, vi sono delle considerazioni critiche ulteriori. Intanto, un utilizzo della leva fiscale in spregio ai principi generali (certezza, irretroattività, programmabilità) rende discutibile il “piano etico” su cui il Governo si inerpica.
La tutela del risparmio, violata
Poi, la sbandierata eticità del provvedimento si scontra con il principio costituzionale di tutela del risparmio (violato negli effetti collaterali dell’annuncio della norma stessa, con quantomeno evidente ingenuità del Governo). Infine, chi stabilisce – e in base a cosa – quale sia la definizione di “giusto” margine? E, ancora, solo nelle “rendite finanziarie” o anche in altre “rendite”? Tasseremo aggiuntivamente certe entrate per locazioni? I margini dei soggetti monopolisti? E le rendite difese dei taxisti e dei balneari? E quelle delle imprese edili “dopate” dagli sconti fiscali a carico di tutta la collettività? E quelle dei professionisti, ancor meno facili da quantificare? Senza richiamare quel vecchio adagio che diceva “si sa dove si inizia, non dove si finisce”, il problema qui è, appunto, l’inconsistenza del principio impositivo, prima ancora dell’arbitrarietà del perimetro scelto.
Le responsabilità delle banche e la realtà
Peraltro, le banche italiane non sono scevre da critiche – in tema di concorrenza, in tema di commissioni sui prodotti di investimento (questi sì, di parecchio superiori alla media europea), in tema di costi applicati “col righello” in maniera indiscriminata (e accresciuta contemporaneamente al crescere dei tassi) – ma agendo così ci si dimentica che sono le banche che – col credito erogato – tengono in piedi il nostro sistema imprenditoriale (tendenzialmente di micro-piccole dimensioni e sottocapitalizzato) e che sostengono – in larga parte – la sottoscrizione delle emissioni (e quindi i relativi prezzi) del nostro debito pubblico. Oltre che, già detto, rappresentano una quota rilevante del nostro mercato borsistico.
Dialogo insufficiente tra Governo e banche
Si poteva far meglio? Sicuramente sì. Non c’è stato dialogo fra Governo e banche? Probabilmente poco. Le banche avrebbero potuto allineare prima i tassi sui conti? Anche sì, pur precisando che trattasi di cifre soggettivamente mediamente poco elevate e detenute da soggetti diversi dai prenditori di credito. Ma qui non siamo di fronte alla scelta tra l’ottimo e il buono, ma siamo di fronte ad una scelta pessima (nell’an, nel momentum, nella credibilità intaccata) in confronto ad alternative esistenti meno invasive (e più liberali).
Le basi dell’economia e dove ha sbagliato la BCE
Si è indicata la BCE (e la scelta di intervenire con incrementi dei tassi per combattere l’inflazione) quale responsabile di una scelta errata a cui il Governo ha dovuto porre rimedio. Ma un Governo che espone tesi come se non conoscesse le basi dell’economia (i.e. il problema dei tassi non sta nella loro dimensione ma nell’intensità della curva dei rialzi, quindi se errore c’è, da parte della BCE e delle altre banche centrali, è quello di non averli alzati prima, proseguendo poi con più diluizione temporale), non fa che alimentare il perenne clima da curva di stadio, non certo foriero di equilibrati confronti sulle ragioni oggettive.
Eppure le soluzioni percorribili esistono
Ora, si dirà, quali avrebbero potuto essere le alternative? Rimanendo in campo fiscale, un monitoraggio istituzionale delle variazioni sui tassi attivi e passivi, indicando un corridoio di marginalità – condizionato all’ampliamento dei volumi di credito futuri e tenendo conto degli accantonamenti obbligatori sui rischi di credito stessi – al supero del quale far scattare una addizionale IRES, per dirne una meno invasiva. O l’istituzione di un fondo perequativo a carico delle banche (facoltativo, chiave marketing; deducibile, chiave premiale), da destinarsi a misure di intervento sociale per le fasce più deboli della popolazione.
Le ripercussioni prevedibili sulle emissioni di titoli di Stato
Insomma, terreno per ricorsi di incostituzionalità a parte, la strada scelta ha trovato reazioni critiche pressoché univoche nel campo degli economisti e di parte della dottrina, mentre ha incontrato il plauso della maggior parte delle forze politiche e di quella parte dei commentatori che ogni volta che si parla di banche e finanza reagiscono come il toro con il drappo rosso. Non certo un buon viatico per essere credibili quando si parla di attrarre investitori internazionali (non solo finanziari).
Occorre però ricordarselo quando, in futuro, ci si lamenterà e ci si chiederà la ragione per cui le nostre emissioni di titoli di Stato verranno prese in considerazione solo se i tassi si incrementeranno ulteriormente; se, verranno prese in considerazione.