categoria: Res Publica
Whistleblowing, molto rumore per nulla. Ecco la differenza fra noi e Usa
Post degli avvocati Matteo Bonelli e Matteo Erede. Il primo si occupa di societario e contrattualistica commerciale. Il secondo di contenzioso societario e corporate governance ed è Adjunct Professor presso l’Università Bocconi di Milano. Sono gli autori del podcast Capitali coraggiosi sul Sole 24 Ore –
Sta per concludersi l’iter per il recepimento in Italia della Direttiva UE 2019/1937 sul whistleblowing. Non ci si dovrebbe aspettare modifiche sostanziali rispetto allo schema di decreto approvato lo scorso dicembre dal Consiglio dei Ministri, su cui di recente vi è stato anche il parere positivo del Garante per la Protezione dei Dati Personali (17 gennaio 2023), espresso su richiesta proprio del governo. D’altronde la stessa direttiva non si può dire che sia di portata rivoluzionaria, sostanziandosi essenzialmente nell’estensione della platea dei soggetti tenuti ad adempiervi, nella migliore tutela dei segnalanti – fra cui in primis la loro riservatezza – e nel rafforzamento dei c.d. “canali di segnalazione”, affinché possano coniugare la sicurezza delle comunicazioni con la garanzia di una protezione efficace degli informatori da possibili ritorsioni, nonché nell’ampliamento della platea dei segnalanti, allo scopo di ricomprendervi ogni forma di collaborazione lavorativa oltre al rapporto dipendente.
Molte domande amletiche, molto rumore per nulla o quasi
Al netto di ciò, l’impostazione del modello non è cambiata, proseguendo dunque nel solco di un dramma shakespeariano già visto: molte domande amletiche, molto rumore. Per nulla, o quasi nulla.
D’altronde la nostra esperienza di whistleblowing – che, va ricordato, viene introdotto nel nostro ordinamento giuridico nel 2012, quale misura di prevenzione della corruzione (l. 190/2012), salvo rimanere pressoché lettera morta per almeno cinque anni (fino alla legge n. 179/2017) – è stata fin qui abbastanza deludente, risolvendosi prevalentemente in iniziative spesso discutibili, se non indebite, più che in denunce di veri e propri illeciti. Lo raccontano l’ultima relazione dell’ANAC, da cui emergono sia il calo costante negli anni più recenti delle segnalazioni di illeciti sia lo scarsissimo numero di procedimenti sanzionatori istruiti dall’Autorità per l’accertamento di misure ritorsive, così come il report 2021 Transparency International, che, sulla base dei dati raccolti tramite la piattaforma WhistleblowingPA, descrive un quadro in cui prevalgono vicende di carattere locale, per lo più legate a nomine e assunzioni, ed essenzialmente confinate al settore pubblico.
Whistleblowing all’italiana: più invidia e vittimismo che senso civico
Sicché viene da pensare che le nostre regole abbiano finito per offrire ricovero all’invidia, al vittimismo e alla strumentalità, più che al senso civico. Tutto ciò è stato poi amplificato dal dilagare del politicamente corretto, che ha prodotto un’inondazione di denunce dal sapore squisitamente “woke”: dal professionista denunciato di molestie da parte della collaboratrice graziosa ma incapace, alla redattrice di moda denunciata di discriminazione da parte della stilista di colore ma senza talento.
È improbabile che da queste nuove regole ci si possa attendere denunce più centrate, anzi forse ci si dovrebbe attendere un ulteriore deterioramento della loro qualità per via delle maggiori tutele offerte ai segnalanti. Eppure, negli Stati Uniti alcuni dei più noti scandali societari sono emersi proprio grazie alle denunce dei whistleblowers. Da Jeffrey Wigand che nel 1996 denunciò le imprese produttrici di sigarette che furono poi costrette a pagare risarcimenti per oltre cento miliardi di dollari, a Michael Bawdunikak che l’anno scorso ha denunciato le pratiche illecite di Biogen per indurre i medici a prescrivere i propri farmaci.
Whistleblowing, meglio niente regole che regole sbagliate
Perché da noi il whistleblowing ha funzionato poco e male, mentre negli Stati Uniti si è invece rivelato molto utile? Secondo Stephen Kohn – uno dei maggiori esperti mondiali in materia – per il buon funzionamento del whistleblowing occorrono due elementi: il primo è la massima protezione della riservatezza, il secondo è l’incentivo a denunciare. La direttiva recepisce bene il primo elemento, ma ignora totalmente il secondo, focalizzandosi invece sulla tutela dei segnalanti, salvo che abbiano denunciato con dolo o colpa grave. Si potrebbe obiettare che è sempre meglio che niente, o per dirla in milanese: piutost che nient l’è mej piutost. Questa volta, tuttavia, “niente” potrebbe essere meglio che “piuttosto”, perché la messa a punto di certe regole è cruciale per assicurarne il funzionamento, così come la messa a punto della velocità di fuga è cruciale per mettere in orbita un satellite.
Gli Stati Uniti hanno una lunga tradizione di regole d’ingaggio dei privati nella tutela di interessi pubblici, che forse li ha aiutati a comprendere l’importanza della loro messa a punto. In proposito è illuminante l’analisi che Martin Gelter ha fatto nel 2012 sui diversi modelli di azione di responsabilità dei soci di minoranza delle società quotate, che funzionano quasi esclusivamente negli Stati Uniti, non per differenze radicali, ma per alcuni dei loro dettagli. Altrimenti i soci di minoranza tendono a limitarsi ad azioni di disturbo al solo fine di estorcere qualche forma di elemosina da parte delle società per toglierseli dai piedi, come in effetti accade in Italia da diversi decenni.
Con il whistleblowing non può bastare la protezione di chi denuncia
Se l’obiettivo del whistleblowing è di fare emergere gli illeciti, non può dunque limitarsi alla protezione di chi denuncia, che in alcuni casi è pure controproducente. Tant’è vero che c’è persino chi ricorre al whistleblowing al solo fine di prevenire un imminente licenziamento o un’azione disciplinare. Senza contare che chi è mosso da un genuino senso civico potrebbe comunque dubitare dell’affidabilità dei canali di segnalazione interni rispetto a quelli esterni.
La consolazione di Michael Bawdunikak
L’incentivo alla denuncia – e in misura da renderla conveniente anche rispetto a eventuali ritorsioni – appare dunque determinante ai fini del buon funzionamento del whistleblowing, mentre una protezione aprioristica dei segnalanti rischia di trasformarsi in un’eterogenesi dei fini della norma. Tant’è vero che negli Stati Uniti i whistleblowers hanno ricevuto ricompense così importanti da renderli indifferenti alle ritorsioni dei datori di lavoro. Oggi Michael Bawdunikak non è più un dipendente di Biogen: può darsi che gli dispiaccia, ma può consolarsi con la ricompensa di oltre 266 milioni ricevuta dal governo statunitense.
Più in generale, per proteggere ed incentivare il whistleblowing esistono programmi finanziati su base annuale dalle principali Autorità di vigilanza (SEC e CFTC) con il preciso scopo di ricompensare la rivelazione di informazioni che permettano di elevare sanzioni di importo superiore al milione di dollari. È così che tra il 2011 e il 2018, la SEC, ad esempio, ha versato in favore di whistleblowers più di 275 milioni di dollari a fronte di informazioni che hanno consentito di recuperare 1,5 miliardi fra sequestri e sanzioni.
In Italia un freno etico-culturale al premio per la delazione
Da noi prevale invece un atteggiamento sostanzialmente ostile a queste forme di ricompensa, per motivi di carattere etico-culturale rispetto all’idea di premiare la delazione, ma non soltanto: per un verso, si ritiene che producano una cultura parassitaria o ingiustamente premiante rispetto al danno subito; per altro verso, con particolare riguardo ai dipendenti pubblici, si pensa che non vi possa essere spazio per premiare chi ha in realtà l’obbligo, in quanto pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, di denunciare un illecito di cui sia a conoscenza, quanto meno se di carattere penale. Sicché vagheggiamo un mondo di persone mosse esclusivamente dalle migliori intenzioni, che non esiste. Come non esiste un mondo di controllori più zelanti nel far rispettare le regole che nel compiacere i gestori.