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Se vuole puntare allo sviluppo delle Pmi, il governo spinga sul fintech
Post di Antonio Lafiosca, Co-Founder & COO di Opyn –
L’azienda Italia? Si regge sulle Pmi. Il dato è abbastanza noto, ma viene sistematicamente ignorato.
Guardando ai numeri, secondo il più recente censimento permanente delle imprese di Istat, nel 2019 in Italia erano attive quasi 4,4 milioni di imprese non agricole, con 17,4 milioni di addetti. Oltre il 60% delle imprese aveva al più un solo addetto (in genere ditte individuali con il titolare lavoratore indipendente), e un ulteriore terzo della popolazione erano microimprese tra i 2 e i 9 addetti; questi due segmenti insieme occupavano circa 7,5 milioni di addetti. Le piccole imprese, tra i 10 e i 49 addetti erano quasi 200mila. Se includiamo anche tutte le imprese con meno di 250 addetti (quelle medie) ne deriviamo che questo agglomerato occupa il 65% del totale di addetti e genera quasi l’80% del valore aggiunto complessivo.
Credito precluso alle Pmi
I numeri parlano chiaro: a creare valore, generare ricchezza e lavoro in Italia è il fornitore del componente di nicchia per l’automotive, l’industria tessile terzista, l’impresa specializzata nella lavorazione dell’acciaio, la logistica di distretto, ma anche lo studio cittadino di consulenza, l’officina meccanica appena fuori dal centro e il ristorante di quartiere. Pmi e piccolissime imprese a cui spesso il credito bancario è precluso, proprio per una questione dimensionale, e la cui crescita è dunque frenata. In un cortocircuito che di fatto limita lo sviluppo dell’economia e del Paese.
Dati noti, dicevamo, ma sistematicamente ignorati. Anche sul fronte governativo, dove la politica industriale è da decenni carente e, anche quando vengono fatti dei tentativi, non è mai mirata su questa categoria di imprese piccole ma di valore.
Eppure le strade possibili per incentivare lo sviluppo delle microimprese ci sono e sono segnate. Dal nostro punto di vista, le misure che un governo come quello che si sta insediando dovrebbe mettere in atto, potrebbero essere diverse.
Estendere i vantaggi fiscali dei PIR al direct lending (che finanzia realmente l’economia reale)
La prima misura – sulla quale insistiamo da qualche anno – è l’estensione alle forme di business lending dei vantaggi fiscali riservati ai PIR. I piani individuali di risparmio sono panieri che contengono per il 70% titoli di aziende italiane (che per almeno il 21% non siano quotate sul Ftse Mib). Nati per far fluire i risparmi privati verso l’economia reale, riservano agli investitori l’esenzione totale della tassazione del 26% sugli utili, in cambio di alcune clausole, principalmente la detenzione del PIR per cinque anni. Anche la versione alternativa dei PIR – che per il 70% deve essere investita in private equity e venture capital – gode dei medesimi vantaggi fiscali.
L’esperimento dei PIR serve dunque alle aziende dell’Euronext Growth Milan (ex Aim), che però sono una sparuta minoranza, poco meno di 200, rispetto ai 4 milioni di microimprese registrate in Italia. Se vogliamo dar loro risorse per crescere ed evolvere, dobbiamo estendere l’esenzione fiscale per gli investitori in direct lending e business lending fintech che fanno fluire direttamente la liquidità nelle casse delle microimprese e incentivare soprattutto gli istituzionali, che acquistano i prestiti alle imprese impacchettati in cartolarizzazioni.
Valorizzazione del Fondo di garanzia anche al di fuori dei periodi di crisi
Una seconda misura che avrebbe un’enorme ricaduta sul territorio è la valorizzazione del Fondo di Garanzia, che è il perno su cui si basa il credito alle PMI in Italia, vitale nei due anni pandemici: senza di esso molte aziende sarebbero saltate insieme al sistema Italia. Tuttavia il Fondo, che funziona in maniera continuativa dal 2000, dal punto di vista della comunicazione è come se, concluse le misure emergenziali, non esistesse più. Mentre non solo continua a esistere, ma è uno strumento fondamentale per consentire alle banche e agli altri soggetti finanziari di fare credito alle imprese.
Auspichiamo dunque che assuma un ruolo da protagonista all’interno del sistema, con una programmazione almeno quinquennale e una comunicazione corretta. Questo genere di impostazione darebbe visibilità alle imprese anche verso gli investitori stranieri e potrebbe portare a uno sviluppo degli investimenti diretti esteri.
Servono regole comuni ed efficaci, che vadano veloce come l’innovazione fintech
Esiste infine un tema di compliance e normativa. La PSD2, entrata in vigore in Italia a settembre 2019 come la grande rivoluzione del sistema bancario, resta in una fase intermedia che lascia l’open banking sospeso. Un obiettivo che il governo deve porsi è quello di rendere operativo ed efficiente questo strumento che è importante dal punto di vista della gestione della liquidità, dell’utilizzo di strumenti di pagamento e della gestione delle imprese, oltre che della valutazione del merito di credito delle stesse. Una serie di vantaggi che però non possono esistere se la normativa non funziona correttamente.
Ma non solo la PSD2. Il Regolamento UE n. 2020/1503 del 7 ottobre 2020 sul Crowdfunding, che consentirà ai fornitori europei di servizi di Crowdfunding di operare in tutti i Paesi dell’Unione Europea e che è già applicativa nei Paesi dell’Unione, vede l’Italia come fanalino di coda: noi non abbiamo ancora deciso quale sia l’ente che deve vigilare sugli operatori di questo settore. L’ideale sarebbe avere un percorso condiviso a livello europeo, che impedisca arbitraggi normativi da parte di altri paesi interni al mercato comune.
… e un credito di imposta sui costi di finanziamento
Senza dubbio, infine, visto il momento di crisi e la possibile stagnazione economica, sarebbe utilissimo un intervento di sistema finalizzato a calmierare i costi che le aziende sostengono per finanziarsi. Tra i tanti bonus a pioggia, sarebbe utile averne uno sui prestiti, in forma di crediti di imposta o con modalità diverse ma che abbia l’obiettivo di alleggerire i costi dei servizi finanziari e dei crediti.