categoria: Vicolo corto
Smart working? Sì, ma serve un cambio di strategia
Post di Ferdinando Meo, Presidente di Younit, start up innovativa che, attraverso una piattaforma digitale, offre beni e servizi per le imprese con lavoratori totalmente o parzialmente in smart working –
Nei due anni successivi alla pandemia la qualità delle condizioni in cui viene svolto il lavoro si è imposta come questione centrale. La mobilità innescata da questa nuova priorità ha assunto, pressoché ovunque, dimensioni rilevanti. La tendenza, soprattutto tra i più giovani, è chiara: ci si indirizza verso le imprese che dimostrano più attenzione alle esigenze private, dove il lavoro concede spazio non solo in termini di tempo ma anche mentale. Imprese che possano anche offrire una flessibilità tra lavoro in presenza e lavoro a distanza. Un lavoro sostenibile, insomma.
Il ribaltamento nella graduatoria delle priorità dei lavoratori sembra strutturale. In attesa di conferme bisogna comunque fronteggiare una domanda molto esigente. Le aziende italiane, comprese quelle pubbliche, sono quindi chiamate a risolvere un’equazione a più variabili: produttività, engagement, competitività, attrazione e fidelizzazione delle persone. Ne sono capaci?
Le soluzioni fin qui adottate sembrano, in prevalenza, ispirate a esigenze tattiche, orientate al breve periodo. È comprensibile ma, certo, data l’importanza che il tema ha assunto, servirebbero maggiore coraggio e una prospettiva più lunga. Se il cambiamento ha la portata di quello in corso, bisogna riscrivere il paradigma. Partendo dal modo di considerare la gestione delle risorse umane.
A questa funzione, in Italia, non si è sempre attribuita un’importanza centrale ma è qui che dovrebbe risiedere la conoscenza di bisogni e attese dei lavoratori, anche quelle non espresse, e delle tendenze in atto nella domanda di lavoro. Ed è da questa funzione che dovrebbero arrivare le indicazioni strategiche per i decisori finali. Il direttore delle risorse umane, come del resto sta capitando in modo crescente alle funzioni di controllo e gestione dei rischi, deve posizionarsi come business partner dei vertici e assumere una responsabilità sia sulle decisioni sia sui risultati. Spetta a lui fare un passo avanti e al top management investirlo di un simile ruolo.
Questo vuol dire definire una linea strategica nella gestione del personale, che oggi conta tanto quanto quella di sviluppo business. È nell’ambito di questa politica che andrebbe inquadrata la scelta, di cui più si è discusso in questi mesi, tra lavoro in ufficio, modello ibrido (2-3 giorni alla settimana a casa) o smart working da dove si vuole. La decisione, va da sé, può essere anche ispirata da considerazioni tattiche assecondando umori del momento o calcoli economici di breve termine. È però sempre più chiaro che questa decisione peserà molto su variabili essenziali della crescita: competitività, capacità di attrarre e fidelizzare le migliori professionalità. Non è detto che considerazioni tattiche e strategiche portino allo stesso risultato.
I dati dell’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano, che stima tra 4,5 e 5 milioni il numero dei dipendenti smart worker e in otto milioni il bacino potenziale (su 18 milioni totali di lavoratori), sembrerebbero lasciare poco spazio alle interpretazioni: l’86% dei lavoratori desidera una formula mista, solo il 14% preferirebbe tornare alla situazione pre-Covid. Secondo una ricerca della Harvard Business Review, circa due terzi dei lavoratori della conoscenza ritiene che la flessibilità sia più importante della retribuzione o di altri benefit e non vorrebbe lavorare per aziende che richiedono la presenza in ufficio per l’intera settimana.
La strada, dunque, sembrerebbe segnata. Ed è, peraltro, una strada in cui per l’azienda i benefici di breve si possono accordare con quelli di più lungo periodo, come Younit sta rilevando in molti casi della sua esperienza di start up.
Un modello ibrido o full remote riduce da 3 a 7mila euro all’anno per dipendente i costi per facility ed energia, tema di stringente attualità e destinato a condizionare per un po’ il conto economico. Riduce il costo delle retribuzioni del 10-15% potenziale sulle nuove assunzioni (nel caso di full remote working) potendo l’azienda assumere personale che vive in aree dove i costi sono relativamente più bassi. Riduce i costi generati dal turnover del personale (variabili tra 20 e 60.000 euro per ogni dipendente che si dimette). Sul più lungo periodo, anche l’aumento del grado di attrazione delle migliori professionalità, in sé meno tangibile, può generare un effetto positivo sul fatturato.
I benefici sul conto economico delle persone sono facilmente calcolabili: la riduzione degli spostamenti casa-ufficio, oltre a ottimizzare la gestione del tempo, fa risparmiare due-tremila euro all’anno per famiglia.
Al di là degli impatti economici, va da sé importanti, la vera posta in gioco è il modello di lavoro che si è affermato negli ultimi trent’anni, figlio (per farla breve) della pressione competitiva innescata dalla globalizzazione e dalla digital transformation. Quel modello, come indicano chiaramente i dati globali sul turnover nelle imprese, è stato messo in discussione e le imprese sono chiamate a costruirne uno nuovo.
Startup e aziende con modelli di business innovativi sono già avanti su questa strada, spinte anche da ragioni di forza maggiore: le politiche molto orientate al benessere del personale evitano di dover competere sui salari. Le organizzazioni più grandi, in generale, dimostrano ancora forti resistenze culturali al cambiamento e non poche hanno la tentazione di un ritorno al passato. Strategicamente un grave errore.