categoria: Res Publica
Proposta: salario minimo fissato per legge ma rimodulato in ogni regione
Tutti ne parlano, ma le differenze tra le posizioni in campo non sono chiare fino in fondo. Il salario minimo è infatti vittima di una certa ambiguità da parte delle forze politiche che in questa campagna elettorale ne sostengono la necessità. L’unico aspetto chiaro è un generale consenso riguardo all’importanza dell’introduzione di un qualche forma di salario minimo. Consenso a cui ci sentiamo di aderire con convinzione: l’introduzione di un salario minimo sarebbe oggi una misura positiva e necessaria per l’Italia, per il suo sistema produttivo e per i suoi lavoratori.
Una delle critiche che viene sollevata più spesso deriva dai rischi di un salario minimo fissato ad un livello “troppo alto”: un salario minimo “troppo alto” sarebbe infatti un problema per le imprese costrette a sopportare costi più alti e causerebbe, in ultima istanza, un calo dei posti di lavoro. Questa critica può però essere facilmente risolta fissando il salario minimo ad un “livello giusto”, in grado cioè di fornire una tutela ai lavoratori schiacciati su livelli salariali iniquamente e inefficientemente bassi senza allo stesso tempo creare dannosi effetti collaterali. E su questo tema i “numeri magici” che hanno fatto più discutere sono stati l’8 e il 9, che dovrebbero rappresentare appunto il livello della paga oraria fissata per legge.
Questo dibattito però sembra non tenere conto di una delle principali caratteristiche del sistema economico italiano, ovvero la sua significativa e fortemente eterogenea distribuzione geografica. L’Italia presenta oggi ampie differenze in termini di costo della vita, livello dei salari e livello della produttività tra regioni diverse. Prendiamo per esempio la soglia della povertà assoluta calcolata dall’Istat, ovvero il costo di un paniere di beni essenziali, che possiamo usare come indicatore del costo della vita: per un adulto che vive in una città del settentrione si raggiungono gli 850 euro, mentre al meridione non si va oltre i 640 euro.
Se guardiamo alla produttività, un’azienda settentrionale è in media più produttiva del 38% rispetto a un’azienda meridionale: ciò significa che, con lo stesso numero di lavoratori, un’impresa settentrionale produce il 38% in più di valore aggiunto di una meridionale. Infine, anche guardando ai livelli salariali le differenze non mancano. La retribuzione mediana oraria nel 2019 di un lavoratore di Torino era di 12,19 euro mentre a Bari di 10,39, a Venezia 11,56 e a Napoli 10,48€: differenze nell’ordine del 10-20%.
E infine lungo lo stivale la percentuale di lavoratori sotto la soglia di un potenziale salario minimo cambia molto, come si può vedere nelle mappe. Se in Lombardia meno del 10% dei lavoratori si trova al di sotto del 60% del salario mediano (soglia solitamente utilizzata come riferimento per un potenziale salario minimo), tale percentuale più che raddoppia in Sicilia. E anche prendendo a riferimento i salari regionali per stabilire la soglia del salario minimo (e non il 60% del salario nazionale) la situazione rimane problematica.
Un unico salario minimo fissato a livello nazionale, quindi, rischierebbe di funzionare male in diverse aree del paese. Se infatti immaginiamo un salario minimo fissato sulla base del livello dei salari delle regioni meridionali, questo sarebbe troppo basso per quelle settentrionali, lasciando i lavoratori del nord senza una adeguata tutela e risultando, alla fine della fiera, inutile.
Se invece il salario minimo fosse fissato prendendo come esempio i salari delle regioni settentrionali in modo da fornire la giusta tutela ai lavoratori che vi si trovano, esso sarebbe troppo alto e poco sostenibile per le aziende delle regioni del sud, con rischiosi effetti deleteri sui posti di lavoro e tessuto industriale meridionale. Insomma, come non si possono buttare in una pentola del riso e degli spaghetti e farli cuocere per lo stesso ammontare di tempo sperando di ottenere una cottura al dente, così non si possono tenere insieme sotto lo stesso salario minimo regioni che presentano livelli di costo della vita, salari e produttività diversi senza andare incontro a qualche problema.
Questo principio, che sembra anche sufficientemente intuitivo, è anche sostenuto da alcune recenti ricerche scientifiche. E, tra l’altro, è quello che già avviene per esempio negli Stati Uniti, dove oltre al salario minimo stabilito al livello federale, i singoli Stati sono liberi di compiere aggiustamenti al rialzo. E non solo: persino alcune città sono intervenute stabilendo un salario minimo solo per la propria zona urbana, alla luce del più alto costo della vita locale e corrispondente livello dei salari.
Fissare il salario minimo al giusto livello per ciascuna regione è la chiave per aumentare il benessere dei lavoratori senza andare incontro ad una distruzione di posti di lavoro. Anzi: un salario minimo fissato al giusto livello per ogni territorio può innescare all’interno del mercato del lavoro delle dinamiche virtuose che portano ad una migliore collocazione dei lavoratori tra le aziende, generando un aumento della produttività. Da oggi al giorno delle elezioni – ma soprattutto dal giorno delle elezioni in poi – se salario minimo sarà, dovremo assolutamente capire i dettagli di come questo salario minimo sarà strutturato. Un salario minimo fissato per legge e differenziato a livello regionale potrebbe essere la miglior carta da giocare.
Il Think-tank Tortuga ha redatto il manifesto per un’Italia delle opportunità in vista delle imminenti elezioni politiche del 25 settembre 2022. Le principali proposte sono analizzate in questa serie di articoli per Econopoly.