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Davvero non avremo una pensione dignitosa? Cosa dice l’Inps
Post di Elisa Lupo, consulente del lavoro con oltre 15 anni di esperienza, specializzata nei temi della previdenza e dei rapporti di lavoro. Attiva nella divulgazione online nell’ambito dell’educazione previdenziale, è autrice e voce di Previdenti, il primo podcast che spiega in modo facilmente fruibile il mondo della pensione –
Nei giorni scorsi il presidente dell’Inps ha presentato in Parlamento la relazione annuale dell’istituto. Il quadro tratteggiato è perfettamente in linea con i trend degli scorsi anni ma ancora una volta il messaggio non viene raccolto né da chi le leggi le pensa e le scrive né da coloro che ne fanno le spese e che, quindi, dovrebbero correre ai ripari, i cittadini. Il presidente Tridico in parole molto semplici ha detto: la previdenza obbligatoria, così come è costruita e in questo contesto sociale, non è in grado di svolgere il ruolo che ha avuto fino a qualche anno fa. Quello di assicurare a tutti dei livelli di vita dignitosi.
Se è vero che questa incapacità si manifesta su tutta la popolazione (il 40% dei pensionati lo scorso anno ha percepito un trattamento pensionistico inferiore ai 12mila euro annui) i suoi effetti diventano drammatici sulle fasce di lavoratori più fragili: giovani, donne e cittadini stranieri.
I giovani perché il mondo del lavoro sta cambiando molto velocemente e le carriere sono più fluide e mutevoli e, di conseguenza, le contribuzioni più frammentate. Le donne perché continuano ad avere carriere discontinue, a loro carico resta la cura della famiglia e i redditi percepiti sono inferiori a quelli dei colleghi: sono il 53% dei pensionati ma percepiscono il 44% dei redditi pensionistici.
I cittadini stranieri, che dovrebbero bilanciare il trend demografico negativo che non consente la tenuta del sistema previdenziale e dovrebbero coprire i posti di lavoro non sostituiti a causa dell’invecchiamento, fanno fatica ad entrare in Italia regolarmente e quando ci stanno sono mal pagati e non sempre vedono versati i contributi per il loro lavoro.
Vale la pena mettere in relazione questo quadro tratteggiato da Inps con quello presentato dal presidente della Covip (Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione) in parlamento ad inizio giugno. Il presidente Padula ha detto che solo il 34% dei lavoratori italiani ha sottoscritto un fondo pensione e tra questi i lavoratori più fragili (giovani, donne e lavoratori dell’Italia meridionale), ossia quelli che ne avrebbero più bisogno, sono quelli che partecipano meno sia in termini di numero di iscritti che in termini di contributi.
Il sistema previdenziale italiano così com’è stato pensato ed è attualmente in vigore si basa su due pilastri: la previdenza obbligatoria e quella complementare. Così come un essere umano che dispone di due gambe per camminare, se una delle due non viene usata adeguatamente (la previdenza complementare) e tutto il peso si sposta sull’unica gamba attiva (la previdenza pubblica) si procederà dapprima zoppicando e poi, inevitabilmente, si cadrà.
Entrambe le relazioni concordano che la situazione così com’è non è sostenibile, la previdenza obbligatoria (relazione Inps) dice che andando avanti così non sarà in grado di assicurare livelli di vita dignitosi ai cittadini, la previdenza complementare (relazione Covip) dice che il sistema dei fondi pensione è in grado di sopperire a quello che non potrà fare la previdenza pubblica ma non gli viene data la possibilità di farlo in quanto l’adesione ai fondi pensione è ancora bassa.
Non soffermandosi sulle pur fondamentali politiche di incentivo all’adesione ai fondi pensione che negli altri Paesi hanno avuto successo (come meccanismi di adesione automatica, contributi aggiuntivi da parte dello Stato a quanto già versato da parte dei lavoratori, riconoscimento di agevolazioni fiscali e contributive), quello che può essere utile mettere a fuoco è il retaggio culturale che ci sta facendo da zavorra in questa fase di passaggio.
Storicamente nel nostro Paese i lavoratori non hanno dovuto pensare alla pensione perché era qualcosa di automatico che arrivava alla fine della vita lavorativa. La posizione contributiva non era qualcosa che andava manutenuta e raramente si comprendeva il modo in cui veniva calcolata la pensione, semplicemente ci si fidava. Questo è quello che tutti abbiamo sentito fin da bambini e il contesto in cui siamo cresciuti, nessuno in famiglia ci ha spiegato che questo era qualcosa di cui dovevamo occuparci così come l’assicurazione dell’auto o la dichiarazione dei redditi.
Siamo diventati adulti, abbiamo cominciato a lavorare e abbiamo replicato ciò che abbiamo visto fare a chi ci ha preceduto, solo che il mondo attorno a noi è cambiato ed è perciò necessario cambiare anche il nostro approccio.
L’Inps ha provato ad “aiutare” a comprendere il cambiamento mettendo a disposizione dei simulatori di pensione futura che dovrebbero far prendere coscienza della “magrezza” della pensione obbligatoria, ma ancora questo non basta.
Vanno messe in campo azioni di “educazione previdenziale” molto più a largo spettro a partire sin dai più giovani, che pensano alla pensione con scetticismo senza essere consapevoli dell’importanza del tempo che hanno a disposizione anche per il risparmio previdenziale.
Così come il maestro Manzi nel dopoguerra riuscì a dare un’accelerata all’alfabetizzazione degli italiani tramite la televisione, adesso è necessario utilizzare i nuovi di comunicazione a disposizione di tutti per ridurre l’analfabetismo finanziario che ad oggi nel nostro Paese si attesta alla preoccupante percentuale del 74%.