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Riecco la legge elettorale, quali fattori assicurano davvero stabilità?
L’autore di questo post è l’avvocato Matteo Bonelli. Si occupa di societario e contrattualistica commerciale –
Quest’estate gli eventi spettacolari non mancano: c’è la guerra in Europa, la quinta ondata di Covid, un’inflazione che non si vedeva da quasi quarant’anni e una siccità che non si vedeva da quasi ottanta, c’è l’emersione di un nuovo ordine mondiale, la crisi di governo, la politica in preda alle tempeste ormonali. Perfino l’invasione delle cavallette, e non è una battuta di John Belushi. La situazione, dunque, è davvero grave.
Ma la gravità del momento rischia di distrarre – per l’ennesima volta – dalla serietà di un problema che ci affligge da sempre: l’instabilità politica. Ad alcuni verrebbe da rispondere che questo problema è irrisolvibile, perché dipende dalla passione (o follia) dalla genialità (o furbizia) e dalla fantasia (o cialtroneria) degli italiani. Ma è una menzogna che ci raccontiamo da decenni, ben sapendo che è semplicemente una questione di governance. L’instabilità dipende solo da poche regole, che i politici conoscono ma fingono di ignorare, perché è nell’interesse di tutti, ma soprattutto dei perdenti, che – essendo la maggioranza anche quando fanno parte della squadra vincente – vivono nell’ansia smaniosa di una crisi per farsi l’ennesima giocata nella lotteria delle nomine o di altre spartizioni di potere e denaro.
Per la stabilità politica occorrono essenzialmente tre cose: legislature durevoli, un numero limitato di forze politiche e la loro coesione. Noi riusciamo a stento ad ottenere la prima, quando va bene. Per avere un numero limitato di forze politiche occorre invece avere una legge elettorale adeguata, mentre per la coesione delle forze politiche occorre intervenire sulle regole costituzionali, ma forse basterebbe iniziare dai regolamenti parlamentari.
L’attuale legge elettorale, cosiddetta Rosatellum bis, non consente di avere un numero limitato di forze politiche in parlamento. Il cosiddetto Brescellum, vale a dire un sistema proporzionale con soglia di sbarramento al 5%, sarebbe senz’altro più adeguato. Con un sistema maggioritario, o a doppio turno, si otterrebbe un numero di forze politiche ancora più limitato: tendenzialmente due, massimo tre. Il problema dei sistemi maggioritari adottati fino a oggi è che sono sempre stati ‘imbastarditi’ da regole che non consentono di arginare la disgregazione delle coalizioni dopo le elezioni, che in effetti è avvenuta puntualmente in tutti i parlamenti eletti con i sistemi maggioritari all’italiana. Gli unici sistemi a doppio turno adottati in Italia sono quelli delle elezioni comunali, che invece hanno dato una discreta prova di stabilità.
Si potrebbe però sostenere che la stabilità non sia un bene a priori. Le autocrazie, per esempio, sono tendenzialmente più stabili delle democrazie, ma ciò non le rende necessariamente più desiderabili, non foss’altro perché anche quelle più illuminate rischiano di collassare disastrosamente. E poi un certo grado di instabilità consente di contrastare un’inevitabile sclerosi del potere in modelli superati dall’economia, dalla società e dalla storia. Per questa ragione ho sempre pensato che i sistemi migliori siano quelli che favoriscono non solo la stabilità ma anche l’alternanza, vale a dire i sistemi maggioritari o quelli a doppio turno.
Senonché mi sono recentemente imbattuto negli studi di Marco Improta, un giovane ricercatore della Luiss che ha fatto vacillare questa mia convinzione. Improta si è laureato con una tesi in cui ha confrontato i diversi modelli di democrazia europea, per capire quali sono i fattori che assicurano maggiore stabilità. Se ne evince che sono un numero di forze politiche limitato – ma soprattutto l’assenza di forze politiche troppo piccole – e la sfiducia costruttiva. Cioè, in sintesi, il modello tedesco. Senonché il modello tedesco non favorisce certo l’alternanza, tant’è vero che in Germania il centrodestra e il centrosinistra si sono alternati solo tre volte negli ultimi settant’anni, senza contare che si fatica pure a comprenderne le differenze politiche.
Eppure la Germania (dell’Ovest) ha avuto la forza e il coraggio sia di riunificarsi con la Germania dell’Est – forse il più importante evento della storia europea dal dopoguerra – sia di risollevarsi dalla crisi in cui era precipitata alla fine degli anni novanta, al punto da essere stata definita il malato d’Europa dall’Economist: un podio poi conquistato dall’Italia, che lo ha mantenuto saldamente per gli ultimi vent’anni e non sembra voglia mollare.
I sistemi anglosassoni, che vendono nell’alternanza l’essenza stessa della democrazia, si sono ultimamente rivelati più vulnerabili a derive carismatiche, che prima non erano mai emerse. Forse perché un tempo al bipolarismo anglosassone corrispondeva un bipolarismo ideologico che si è liquefatto in scrosci di idee rumorose ma volatili, favorendo l’ascesa di leader i cui principali elementi distintivi erano la visibilità e il rumore, più che la consistenza e la coerenza. Sicché il modello anglosassone appare oggi meno convincente di un tempo.
Parallelamente nell’ultimo ventennio si è pure affermato il modello cinese, che noi non definiremmo democratico, ma che realizza una sintesi di meritocrazia, pragmatismo e coesione sociale che le nostre democrazie – seppur più libere, competitive e aperte – faticano a realizzare. Meritocrazia e pragmatismo sono oggi i mantra di forze politiche che si oppongono ai populismi che hanno travolto e contagiato le democrazie occidentali, senza però comprendere che la forza dei populismi dipende dai modelli di governance e non dall’identità delle forze politiche, tant’è vero che anche chi professa i valori del merito e del pragmatismo è stato contagiato da candidati piuttosto pittoreschi.
In questi giorni ebbri e tumultuosi pare che le forze politiche stiano iniziando a discutere di una nuova legge elettorale, che sarebbe utile approvare prima della crisi che è stata ormai annunciata dopo l’estate. Forse non c’è più tempo, ma c’è da augurarsi che sotto l’ombrellone qualcuno voglia leggere la tesi di Marco Improta sulla stabilità dei governi. L’argomento non è forse molto sexy, ma in fondo non meno di quanto lo sia compulsare le banalità dei social media per rilanciare con uscite altrettanto dimenticabili. Per una vera disintossicazione dalla retorica dell’ovvio, dallo sdegno ipocrita e della pietà fasulla che albergano un po’ ovunque nella comunicazione politica consiglierei però di leggere Una sterminata domenica di Claudio Giunta, in cui la descrizione dei luoghi italiani è sempre in bilico fra l’affetto e lo sconforto. Forse per affrontare i nostri problemi con più serietà potremmo cominciare proprio da qui.