categoria: Vicolo corto
La parità di genere entra negli obiettivi delle aziende: ecco come
Post dell’avvocato Alessandro De Palma e dell’avvocato Luca Garramone, partner di Orsingher Ortu Avvocati Associati –
Come noto, il cosiddetto “Codice delle Pari Opportunità” è stato oggetto di recenti interventi legislativi (l’ultimo risalente al maggio u.s.) riguardanti, da un lato, il “Rapporto sulla situazione del personale” (cfr. art. 46 del D.Lgs 198/2006) e, dall’altro, la “Certificazione della parità di genere” (cfr. art. 46bis del D.Lgs 198/2006).
Iniziamo dal primo, il Rapporto sulla situazione del personale.
Di cosa si tratta?
Altro non è che una sorta di “fotografia” che tutte le aziende con oltre 50 dipendenti devono “scattare” (mediante compilazione telematica di un apposito format disponibile sul portale del Ministero del Lavoro) per rappresentare – con l’oggettività asettica che solo numeri e importi riescono a offrire – la situazione occupazionale del personale maschile e femminile presente in azienda.
Agli occhi tanto del Ministero del Lavoro, quanto delle rappresentanze sindacali destinatarie del suddetto rapporto, va fornito (entro il prossimo mese di settembre) un quadro trasparente e completo di dati retributivi, inquadramenti contrattuali, eventi formativi, nuove assunzioni, progressioni di carriera, dimissioni, sospensioni, licenziamenti (individuali o collettivi), prepensionamenti, etc.
Insomma, le società medio-grandi dovranno obbligatoriamente (pena, la comminazione di sanzioni amministrative) mettere a nudo il proprio “stato dell’arte” in tema di pari opportunità tra personale maschile e femminile: per qualcuna (forse non tantissime …) sarà l’occasione di sbandierare con orgoglio un “fiore all’occhiello” da tutelare e far conoscere; per molte altre (si teme la maggioranza) sarà invece l’occasione per riflettere sulle molteplici cause che rendono un tale obiettivo ancora molto, troppo, lontano, e per pianificare possibili iniziative ed interventi mirati.
Passiamo al secondo tema: la Certificazione.
Con l’inserimento dell’art. 46bis nel Codice delle Pari Opportunità, è stato introdotto nel nostro ordinamento, a decorrere dal 1° gennaio 2022, l’istituto della certificazione della parità di genere, sia per le aziende pubbliche sia per quelle private.
Oltre a voler soddisfare una delle principali previsioni contenute nel PNRR, lo scopo primario della certificazione è quello di attestare le politiche e le misure concrete adottate dalle imprese per diminuire il cd. “gender gap”, in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alla parità salariale e di mansioni, alle politiche di gestione delle differenze di genere ed alla tutela della maternità.
Si tratta quindi di uno strumento necessario per contribuire ad effettuare un radicale cambiamento di paradigma, mediante l’inclusione del principio di parità di genere negli obiettivi aziendali, con la conseguenza che le imprese dovranno quindi pianificare, implementare e documentare non solo i provvedimenti effettivamente varati per garantire il rispetto di tale principio, ma anche i sistemi che consentano la verifica dell’applicazione delle misure attuate.
Nello specifico, l’individuazione dei parametri minimi per il conseguimento della certificazione è rimessa ad un apposito DPCM, nelle more del quale il Ministero delle Pari Opportunità unitamente ad UNI (Ente Italiano di Normazione) hanno già varato una prassi di riferimento intitolata “Linee Guida sul sistema di gestione per la parità di genere che prevede l’adozione di specifici KPI (cd. “Key Performance Indicator” o Indicatori Chiave di Prestazione) inerenti alle Politiche di parità di genere nelle organizzazioni”.
Nonostante non abbia natura normativa, affinché le azioni di parità di genere siano efficaci, la prassi di riferimento definisce una serie di indicatori confrontabili suddivisi in 6 aree di valutazione di carattere quali-quantitativo (cultura e strategia; governance; processi HR; crescita professionale; equità remunerativa) che costituiscono quindi un ottimo metro di confronto per le società che vogliano orientare le loro scelte decisionali per ridurre il gender gap.
Ciò non solo per potersi fregiare di un simbolico ma importante attestato sotto il profilo reputazionale, ma anche (se non soprattutto) perché, a mente dell’art. 5 della L. 162/2021 ed una volta emesso il relativo DPCM, le aziende private in possesso della certificazione potranno avere accesso ad un significativo sgravio contributivo nonché al riconoscimento di un punteggio premiale ai fini della possibile concessione di aiuti di stato a cofinanziamento degli investimenti sostenuti.
Difficile, oggi, fare una previsione sensata sull’efficacia concreta – o meno – dei suddetti strumenti.
A sensazione, un primo (piccolo) passo è stato fatto, ma la strada è ancora molto lunga.
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