categoria: Vicolo corto
Il trilemma del lavoro: salari, precarietà, costi per le imprese. Se ne esce?
Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali –
A volte, le “feste comandate” portano con sé un carico eccessivo di vuota retorica, fatta di grandi auspici slegati dalla realtà fattuale. E, purtroppo, fuorvianti contrapposizioni ideologiche, come anche l’ultimo primo maggio ha confermato.
Parlare di lavoro si può (e si deve). Ma per farlo (davvero) seriamente, occorrerebbe non farlo “solo” nelle ricorrenze pubbliche, bensì “continuare” a farlo “tra un primo maggio e l’altro”, sui media, in Parlamento, nelle aziende, nelle aule scolastiche. E farlo, però, senza cadere in (contrapposti) teoremi ideologici o in (spesso fasulli) stereotipi semplicistici. Il lavoro che (c’è ma) non si trova e i giovani che però (forse) non vogliono lavorare; le offerte di lavoro (a volte davvero) discriminanti o sessiste e la (auspicabile) parità di genere; i lavori che (non) sono solo precari o in nero; il costo del lavoro (che è) eccessivo e che (forse) non fa assumere; la produttività che (da decenni) non cresce e l’inflazione che (invece) non doveva esserci adesso; gli stipendi (a volte) insufficienti e il salario minimo (che già ci sarebbe) come risposta; la (in)sostenibilità previdenziale e però i diritti acquisiti (non sempre meritati); gli incidenti sul lavoro (che purtroppo accadono) e le colpe presunte (che purtroppo a volte ci sono); la competitività-Paese perduta (da ritrovare) ma la concorrenza che spinge(rebbe) a non rispettare
le regole: tutte affermazioni (solo) parzialmente vere e al contempo (largamente) opinabili, che andrebbero prese, analizzate, discusse, capite, messe in sequenza per le loro oggettive correlazioni e solo dopo, cioè una volta che cause ed effetti siano razionalmente diventati oggetto di comprensione, brandite come argomentazioni (non solo) pubbliche.
Insomma, terreno fertile per (molte) discussioni non oggettive (e conseguenti manipolazioni). E, invero, terreno sdrucciolevole, per un articolo di divulgazione economica, facilmente preda di strumentalizzazioni successive delle singole frasi utilizzate. Ciononostante, terreno da calcare per (provare a) proporre alcuni ragionamenti pragmatici. Il “trilemma” da affrontare, per quanto qui di interesse, è oggi di grande attualità ed è costituito da salari (da difendere dallo spettro inflattivo), precarietà (da stabilizzare per favorire risparmio e consumi) e sostenibilità (nel tempo, del costo del lavoro complessivo per le imprese).
È implicitamente evidente che ciascuno di questi tre “angoli” di visuale del “trilemma” porti con sé ulteriori tematiche specifiche, quali ad esempio le scelte politiche sulla regolamentazione giuridica del lavoro (più o meno rigida in tema di licenziamenti; più o meno attenta in tema di sicurezza del lavoro; più o meno efficace in tema di eguaglianza di genere nei salari), quelle funzionali sui percorsi di entrata nel mondo del lavoro (attrattività di talune funzioni; specializzazioni di lavoro/servizi; tutele in tema di welfare; facilità di assunzioni e durata dei contratti; corretta applicazione di alternanze scuola-lavoro e tirocini professionali), o quelle economiche sulla “giusta” retribuzione (contrasto al lavoro sommerso; oneri fiscali e contribuzione sanitaria e pensionistica; eventuali detassazioni incentivanti correlate a date condizioni oggettive; forme di
workfare e di remunerazione variabile anche non solo monetaria).
Ed è altrettanto evidente che ciascun “angolo” del “trilemma” risponde a singole convenienze in antitesi con quelle proprie degli altri due. Così, un sistema maggiormente rigido in termini di salari, penalizza la sostenibilità per le imprese in tempo di crisi; o un sistema di maggiore flessibilità al momento dell’accesso nel mondo del lavoro o nel mantenimento stesso della forza lavoro, favorisce una maggiore condizione di precarietà. Ovvero ancora, l’eventuale intervento sul cuneo
fiscale (il delta fra il costo del lavoro per un’impresa e il netto ricevuto dal dipendente, costituito da oneri sociali sanitari e previdenziali a favore di quest’ultimo e da oneri fiscali a carico del medesimo, anche se pagati/trattenuti dal datore di lavoro) potrebbe essere finalizzato a un maggior salario netto a parità di costo per le imprese o a un minor costo del lavoro per quest’ultime a parità di netto per il dipendente, ma sempre generando un minor introito (fiscale, sanitario o previdenziale) che dovrà trovare copertura in aggravi della fiscalità generale (quindi per tutti) ovvero porterà a riduzione delle prestazioni sociali a carico dello Stato (vuoi in termini di minore spesa pensionistica, sanitaria o generale).
Scegliere come intervenire, dunque, non è certo cosa facile e discende da “quale” visione si ha del sistema-Paese che ciascuno di noi ritiene ottimale. Ma la discussione sui pro e i contro, di detti interventi, non può essere lasciata alla demagogia e all’irrazionalità economica: in fondo, infatti, va ribadito che sono i (bistrattati) “numeri”, che costituiscono il “metro” della sostenibilità complessiva di un sistema economico nel tempo.
Occorre dunque partire da alcuni punti fermi.
Il tasso di occupazione (percentuale di occupati sul totale della popolazione) in Italia si attesta intorno al 58-59%, evidenziando una quota sempre maggiore di partecipazione femminile al lavoro (dal 35% degli anni ottanta al 49% circa attuale della popolazione femminile) e una minore percentuale complessiva nelle regioni meridionali. In totale, ci sono circa 23 milioni di occupati, per il 77% dipendenti e per il restante 23% autonomi. Il tasso di disoccupazione (percentuale di disoccupati sulla popolazione potenzialmente attiva lavorativamente) si aggira intorno al 9-9,2%, leggermente più alto (un punto percentuale circa) per il genere femminile e notevolmente più alto per i giovani (sotto i 24 anni), intorno al 29% circa. Per questi ultimi, il dato appare notevolmente diverso in funzione della stratificazione dei titoli di studio (decrescente al crescere del livello di istruzione, è intorno al 5/5,5% per i laureati).
In Italia, la retribuzione salariale media (intendendo per questa un “medione” generale del tutto avulso da applicazione pratica e buono solo “ad uso statistico”) è pari a circa 38 mila dollari annui, contro i 53 mila circa della Germania, i 46 mila circa della Francia, per non dire degli oltre 69 mila dollari circa degli Stati Uniti. Nella media Ocse, l’Italia è peraltro fra i Paesi con minore differenza salariale media al crescere del livello di istruzione e fra quelli con la maggiore differenza salariale media per genere. Al contempo, sempre per parlare di “medioni”, è fra i primi per differenza salariale fra dipendenti pubblici, circa 34/35 mila euro pro-capite, e dipendenti privati, circa 30/32 mila euro nei settori delle utilities e della manifattura e 27/29 mila euro nei settori del commercio, dei servizi (non finanziari) e dell’edilizia (tralasciando qui il comparto dei servizi professionali, mediamente in difficoltà anche fra i datori di lavoro).
Quasi ovvio sottolineare che la retribuzione media cresce al crescere della dimensione media dei datori di lavoro, contribuendo a generare quella “frattura” (da ricomporre) fra soggetti garantiti e non garantiti citata in altro articolo (vedasi precedente articolo). In relazione ai dati fin qui ricordati, occorre anche sottolineare come la polemica sulla necessità o meno di introdurre un “salario minimo” quale “risposta” al potere salariale eroso dalle fiammate inflattive di questi ultimi mesi (e, purtroppo, non destinate a rallentare a breve) sia “in sé” fallace, poiché (da dati ufficiali INPS) il 99% dei datori di lavoro, pari al 98% della forza lavoro del settore privato, sono già vincolati da “contratti collettivi” sindacali che prevedono un minimo orario di retribuzione. Talché, pare evidente concludere che il tema non sia il “minimo” in sé, bensì creare le condizioni economiche (di sistema) affinché questo (e così il dato medio) possa “aumentare”. E,
ovvio, contrastare al contempo gli abusi derivanti dal lavoro nero et simili, che sfuggono alle forme contrattuali (e previdenziali) di tutela.
Occorre qui sottolineare altresì come la composizione del costo del lavoro, in Italia, condizionata dall’incidenza fiscale e contributiva, costituisca uno dei principali “nodi” da affrontare. Il tema, infatti, dell’eccessivo “peso” dell’attuale cuneo fiscale è al contempo sia causa della minor competitività salariale italiana che causa del maggior peso del costo del lavoro nei bilanci delle imprese rispetto ai loro competitor stranieri, anche solo in riferimento ai maggiori Paesi occidentali. Peraltro, “nodo” di difficile scioglimento, come già detto all’inizio, tanto per le differenti attese in ordine al “giusto” mix tra benefici ai lavoratori e quelli alle imprese stesse, quanto per gli effetti sui conti pubblici in ordine alle entrate fiscali e contributive. Tale struttura del costo del lavoro contribuisce anche al pessimo valore dell’indicatore medio del valore aggiunto per costo del lavoro, determinando – a parità di retribuzione netta finale – un “overweight” nei costi in bilancio rispetto ad aziende straniere concorrenti.
Ciò si aggiunge agli altrettanto pessimi dati sulla produttività che, sia detto per inciso, sono uno dei fattori determinanti per le decisioni di investimento industriale (e quindi di creazione di posti di lavoro). Invero, in termini di produttività per ore lavorate (calcolata come PIL su ore lavorate) si nota come, pur registrando un incremento, l’Italia si assesti nella fascia bassa dei Paesi Ocse. Ma è soprattutto in termini di produttività totale dei fattori (investimenti e lavoro) che emerge una sostanziale continua stagnazione (a partire fin da metà anni settanta). Va altresì osservato come, dall’analisi dei dati relativi al 2020, nel pieno della crisi pandemica, il dato calcolato sulle ore lavorate sia invero aumentato (probabilmente soprattutto per via del decremento delle ore lavorate, per effetto dei lockdown, maggiore del decremento del PIL), mentre il dato calcolato sulla produttività del capitale risulti essere fortemente in calo (probabilmente per via del decremento del Pil maggiore del decremento degli stock di capitali investiti) e, incidentalmente, ricordato come il livello medio degli investimenti pubblici e privati sia il vero elemento mancante della “ripartenza” economica pre-pandemica del nostro Paese, post crisi Lehman (vedasi precedente articolo).
È innegabile che in un Paese come il nostro, dalla pressione fiscale “monstre” (pari al 43,5% del PIL) – che è anche uno dei fattori che incidono sul cuneo fiscale prima richiamato – con al contempo un’evasione a livelli patologici (che porta la pressione fiscale effettiva al 48,2% del PIL, sottraendo a quest’ultimo la quota di economia sommersa, di circa l’11/12%, ricompresa nel calcolo), dalla curva demografica in (forte) rallentamento – che è anche uno dei (principali) fattori di insostenibilità prospettica del nostro sistema previdenziale – con al contempo larga fetta di popolazione priva di (efficaci) strumenti di copertura sanitaria/pensionistica integrativa, dall’eccesso di debito pubblico (pari al 149% circa del PIL) – peraltro ulteriormente cresciuto per (giustamente) tentare di reagire agli effetti economici della crisi pandemica – con al contempo un sistema economico-fiscale basato su bonus una tantum e spesa corrente, piuttosto che su interventi strutturali e spesa per investimenti, non sia affatto facile “intervenire” nel “raddrizzare la barca” senza una (duratura) coesione delle forze politiche e delle parti sociali verso obiettivi condivisi.
Quello che è certo è che serve, ora più che mai, non “demagogici ideologismi” o “scorciatoie populiste”, ma “costruire” un’agenda programmatica che possa agire sul favorire l’accesso al mondo del lavoro (e l’incentivazione della stabilizzazione delle forme di lavoro stesse, anche per gli effetti futuri sulla copertura previdenziale) senza gravare sul sistema delle imprese (anche, se non soprattutto, attraverso una equa riduzione del carico fiscale e all’incentivazione dei processi di innovazione tecnologica) e dei piccoli lavoratori autonomi, favorendo percorsi di incentivazione alla compliance regolamentare (fiscale, in primis, ma anche giuridica e giuslavoristica, rafforzando in maniera più efficace e non solo burocratica il contrasto agli incidenti sul lavoro) e percorsi di sostenibilità finanziaria (accesso al credito di filiera e capitalizzazione delle imprese) oltre che di aggregazioni industriali.