Fenomeno “The Great Resignation”: è veramente una fuga dal lavoro?

scritto da il 10 Maggio 2022

The Great Resignation sembra il titolo di un film californiano. Molto più semplicemente  si tratta di un fenomeno che vede una grande massa di persone lasciare volontariamente il posto di lavoro. Da ciò deriva una narrazione affascinante. Si lascia un lavoro per trovarne uno migliore? Oppure per perseguire un’ambizione, un sogno o un’iniziativa imprenditoriale? I più audaci si spingono oltre, pronosticando “la fine del lavoro“, che ricorda un po’ “la fine del mondo come lo conosciamo“. Tutte locuzioni figlie del celebre articolo “la fine della storia” di Fukuyama.

Sono già stati versati molti fiumi di inchiostro sull’argomento. Proviamo a capirne un po’ di più, per poi operare un difficile tentativo di comparazione tra l’esperienza statunitense ed i germogli di quella italiana.

Il caso statunitense

La prima domanda da porsi è d’obbligo: si tratta di un fenomeno figlio della pandemia?  Sicuramente il nome è stato coniato nel 2021, ma in realtà il fenomeno sembra avere radici meno recenti. Secondo un articolo apparso sul sito dell’Harward Business Review, la tendenza a dimettersi era già in corso da diversi anni ed ha rallentato solo nel 2020, per la crisi Covid-19.

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Secondo gli autori, sono cinque i fattori che influenzano maggiormente tale fenomeno, riassunti nelle “cinque r”. Retirement, relocation, reconsideration, reshuffling e reluctance. Retirement sta per pensionamento. Si potrebbe parlare persino di “The Great Retirement”, fenomeno che sembra accelerare, a differenza di quanto avvenuto nella recessione 2007-2008, dove l’età della pensione aumentava. La Relocation dei lavoratori è stata invece bassa, nonostante una certa narrazione relativa alla fuga dagli uffici. Nel 2021, in particolare, è stata la più bassa registrata negli ultimi settant’anni.

Il fenomeno della Reconsideration è invece significativo. L’impatto emotivo della pandemia ha portato molti a riconsiderare, appunto, il proprio equilibrio tra lavoro e vita privata. Si ravvisa una maggiore attenzione alla salute ed al benessere. Tale situazione riguarda soprattutto lavori contraddistinti da picchi di stress e da situazioni di burnout.

C’è poi il Reshuffling, che riguarda l’alto livello di cambio lavoro verso aziende dello stesso settore o verso diversi settori. Ciò implica una buona vivacità del mercato, con le aziende interessate a compiere maggiori sforzi per trovare nuovo personale, in termini di salari e di benefit. Infine, la Reluctance, ossia la riluttanza di molti lavoratori a ritornare alla vita del “tutti i giorni in ufficio”.

Le grandi aziende devono fare i conti con la “cultura tossica”

In un altro articolo, pubblicato sulla MIT Sloan Management Review, il tema della Great Resigntation viene invece analizzato da un punto di vista settoriale.

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Come si vede dal grafico, alcune professioni sono più interessate rispetto ad altre. Colpisce (ma non sorprende) il secondo posto per la consulenza manageriale, una delle più affette da fenomeni di burnout. Ma esistono anche enormi differenze infra-settoriali. Come si vede dal seguente grafico, ne escono male grandissime aziende come Tesla, Netflix e Goldman Sachs. È un segnale importante, che forse ci indica che il problema non riguarda solo i salari. Infatti, gli autori misurano quali fattori negativi influenzino la voglia di lasciare un’azienda in misura maggiore rispetto ai salari. Ed ecco che “una cultura tossica” aziendale incide più di dieci volte rispetto alla retribuzione. Anche qui, il risultato colpisce, ma non sorprende.

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Cosa dovrebbero fare le imprese per favorire il mantenimento delle risorse? Secondo gli autori, si dovrebbero offrire maggiori opportunità di crescita in ruoli diversi, favorire forme di lavoro agile, sponsorizzare eventi ricreativi e culturali e, infine per i “blue collars”, garantire turni di lavoro meno soggetti a flessibilità.

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E in Italia?

La situazione in Italia è particolarmente diversa, soprattutto in termini di proporzioni rispetto agli Usa. Ma è comunque degna di attenzione. Come spiega Francesco Armillei sul lavoce.info, nell’ultimo trimestre del 2021 ha superato il 3%. Che non è poco. Nell’articolo, l’autore spiega che non vi siano forti correlazioni con alcune delle spiegazioni più comuni, come il rinvio delle dimissioni dal 2020 al 2021, la paura di rientrare in ufficio per la pandemia o la possibilità di lavorare da casa.

In un pezzo precedente, sempre Armillei ha tracciato un primo identikit di chi si è dimesso.

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La prima tabella smonta un po’ di narrazione. Non sono i giovani a trainare la tendenza, né i lavoratori qualificati. Il quadro è infatti molto frammentato.

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Guardando invece i dati settoriali, colpisce il 52% -sulla variazione totale- del settore delle costruzioni. Anche questo è un dato che smonta un bel po’ di narrazione affascinante.

Quanto sopra rappresenta un indice della complessità del fenomeno e della necessità di ulteriori approfondimenti. Occorre comprendere se si tratti di un trend o di una congiuntura particolare dai  rilievi scarsamente sociologici.

In un altro articolo, si affronta invece il caso italiano delle “grandi dimissioni” a livello territoriale. E salta subito all’occgio che le dimissioni sono molto più significative nelle regioni el Centro-Nord.

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A mo’ di conclusione

Come canta Vasco in una celebre canzone, “Non siamo mica gli americani”. Una vera comparazione tra il caso statunitense e quello italiano non è al momento ipotizzabile, per un motivo molto semplice. A marzo la disoccupazione in Italia è stata pari all’8,3%, negli Usa al 3,6%. Laddove vi è piena occupazione, è molto più facile trovare un altro impiego e, quindi, dimettersi per perseguire opportunità più allettanti. Ecco perché, spesso, in Italia chi è insoddisfatto della propria posizione finisce per dover emigrare, proprio per la scarsa vivacità del mercato domestico del lavoro e per le sue plurime ingessature (soprattutto lato previdenziale) che disincentivano il cambio lavoro e il cambio settore.

Naturalmente, pesa anche il dato sulla crescita economica. Infatti, la salita del numero delle dimissioni è stata favorita dal rimbalzo economico del PIL nel 2021 ed è più forte del Centro-nord, caratterizzato da un’economia più florida e da tassi di disoccupazione più bassi.

Il fenomeno è quindi molto interessante, ma non sembra rivoluzionario. Tuttavia, presenta dei lati positivi, perché può rappresentare un’occasione importante per ripensare la gestione manageriale di molte aziende -anche medie e grandi- che spesso peccano di scarsa attenzione alle politiche di retention. 

Twitter @francis__bruno