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Il difetto delle nostre imprese? Troppo familismo e poco capitale umano
Le imprese italiane hanno diversi problemi. Di tipo dimensionale, ma anche in termini di organizzazione, governance e competenze. Sicuramente ciò rappresentata anche l’eredità di un capitalismo “tascabile”, che spesso ha fatto le fortune del nostro Paese. Ma il problema della classe imprenditoriale italiana non può essere sempre nascosto dietro il tanto (giustamente) decantato “Made in Italy”.
Un recente studio della Banca d’Italia, a cura di Baltrunaite, Formai, Linarello e Mocetti, offre interessanti spunti di riflessione. Inoltre, ha il pregio di fornire indicazioni sul ricorrente tema di quei divari infra-nazionali che contraddistinguono la storia politica ed economica dell’Italia unita.
Le imprese familiari
La prima ipotesi verificata dagli autori riguarda l’elevata presenza di imprese familiari nel nostro Paese.
Come si evince dalla figura, la percentuale di imprese familiari è, come detto, molto alta (in particolare al Sud). La stessa decresce all’aumentare delle dimensioni dell’azienda. .
Il grafico (b) è la normale conseguenza. La presenza di manager non appartenenti alla famiglia dei proprietari è molto bassa nelle piccole e medie imprese. Solo nelle grandi aziende del Centro-Nord diventa significativa. Anche nel secondo grafico, le imprese meridionali si caratterizzano per un minor ricorso all’affidamento della gestione delle aziende ad amministratori non familiari.
Partendo poi dai dati dell’indagine Invind, curata dalla Banca d’Italia, gli autori entrano maggiormente nel dettaglio delle differenze Nord-Sud.
La figura mostra in modo ancor più netto l’incidenza delle imprese familiari al Sud, pari al 58%, contro il 33% del Centro-Nord. Inoltre, il 38% dei proprietari delle imprese è locale, contro il 19% del Centro-Nord. Su tale ultima differenza incide sicuramente l’immigrazione, che in Italia -come noto- è Italia praticamente a senso unico verso il Nord. Le differenze sono nette anche se si osservano i dati sugli amministratori. Nel Sud, il 64% dei manager è locale, contro il 51% del Centro-Nord. Il 47% è un familiare dei proprietari, a fronte di un 27% del Centro-Nord.
Ma l’analisi descrittiva lascia il tempo che trova. Ciò che conta è cercare di capire se tali dati incidano sulle performance aziendali. Partendo dai numeri di cui sopra, gli autori provano a verificare se tali differenze, riscontrate negli assetti proprietari e manageriali, possano contribuire a spiegare i diversi livelli di produttività registrati nelle macro-aree del Paese. Differenze che, secondo gli autori, valgono poco più del 17%.
I risultati mostrano che la presenza più marcata di imprese familiari incide per circa un decimo sulle differenze di produttività tra le due macro-aree considerate. Il gap è più evidente nel caso delle scelte da compiere sul cambiamento tecnologico.
Il capitale umano all’interno delle imprese
Un’altra area analizzata dagli autori riguarda il capitale umano degli imprenditori e dei manager e la loro istruzione.
Gli imprenditori sono generalmente più anziani rispetto alla classe dei dipendenti e, come noto, di genere prevalentemente maschile. Inoltre, sono meno istruiti. Solo il 10% possiede una laurea.
Passando ai manager, il livello di istruzione è molto più alto. Il 55% ha una laurea. Ma mentre per la classe degli imprenditori le differenze di istruzione tra Centro-Nord e Sud sono contenute (2%), nel caso dei manager sono più consistenti (14%).
Anche in questo caso, gli autori si chiedono se tali differenze incidano sulle performance aziendali. Per quanto concerne il capitale umano dei manager, si rinviene un effetto del 10% sulle differenze dimensionali tra le due macro-aree.
A mo’ di conclusione
Si tratta di risultati importanti. D’altronde, però, non sorprendono. Senza scomodare inutilmente Banfield, la chiusura a riccio di gran parte delle imprese italiane all’interno dei propri nuclei familiari è sinonimo di provincialismo fine a sé stesso. Di paura della delega. Invero, in tali imprese si tende a far ricoprire i ruoli di amministratori a figli e nipoti. Sicuramente, a volte,ciò consente di salvaguardare delle eccellenze. Tuttavia, la prassi mal si concilia ad un contesto di agguerrita competizione internazionale (nel quale contano le competenze, non le parentele).
Si obietterà che il modello “principale-agente”, posto alla base della separazione tra proprietà e management, non sia scevro da problemi. Soprattutto a causa delle asimmetrie informative che contrappongono le due categorie. Tuttavia, rappresenta un passaggio fondamentale da compiere per chi voglia pensare in grande.
Resta molto da fare anche nel campo dell’istruzione. I dati sui proprietari sono allarmanti, ma anche quelli riguardanti i manager sono insoddisfacenti.
Per affrontare tali temi e non relegarli agli ambiti accademici, occorrerebbe invertire la narrazione politico-mediatica che continua ad insistere su miti e leggende riguardanti le specificità italiane. Nessuno mette in dubbio le eccellenze, ma è necessario ragionare sul sistema, sulle regole di funzionamento dello stesso e sull’allocazione degli incentivi fiscali ed amministrativi.
Twitter @francis__bruno