Perché il taglio delle accise non taglia i prezzi di benzina e gasolio

scritto da il 30 Marzo 2022

Post di Fabio Ghiselli, dottore commercialista, già tax director d’impresa, attualmente tax and lab advisor, autore di numerose pubblicazioni in materia tributaria e di welfare, opinionista de Il Sole 24 Ore, cultore di economia –

Il Governo, ritenuta la straordinaria necessità e urgenza di emanare disposizioni per contenere “l’eccezionale incremento dei prezzi dei prodotti energetici” provocato dallo scoppio della crisi Ucraina, è intervenuto per ridurre il peso delle accise, e lo ha fatto con due provvedimenti emessi in date diverse ma pubblicati entrambi lo stesso giorno sulla Gazzetta Ufficiale, il 21 marzo:

1. un decreto del MEF del 18.3.2022, che ha ridotto l’importo complessivo delle accise per litro di benzina e gasolio da 0,7284 euro a 0,6432 e da 0,6174 a 0,5322, quindi una differenza pari a 0,0852 euro;

2. il D.L. 21.3.2022, n. 21, il cui art. 1,comma 1, dispone una ulteriore riduzione, rispettivamente, a 0,4784 euro/litro e a 0,3674 euro/litro, quindi ulteriori 0,1648 euro.

La somma dei due interventi è pari a -0,25 euro/litro per entrambe le tipologie di carburante, ai quali si deve aggiungere una minore Iva per 0,05 euro, perché applicata su un imponibile (le accise) inferiore.

Come si può notare a prima vista, il “taglio” delle entrate erariali garantito dalle accise non è indifferente: si tratta, rispettivamente, di un -34,32% e –40,49%.

foto di Jonathan Kemper per Unsplash

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Come mai due strumenti diversi per raggiungere lo stesso risultato?

Perché il decreto ministeriale si fonda su un meccanismo che dovrebbero essere automatico e obbligatorio, previsto dai commi da 290 a 294, dell’art. 1, della L. 24.12.2007, n. 244, con cadenza trimestrale. In particolare proprio il comma 290 dispone che “al fine della tutela del cittadino consumatore” le accise “sono diminuite al fine di compensare le maggiori entrate dell’imposta sul valore aggiunto derivanti dalle variazioni del prezzo internazionale, espresso in euro, del petrolio greggio”.

Il D.L. n. 21/2022, esclude l’applicazione della suddetta norma, salvo richiamarne l’efficacia ai fini della quantificazione delle maggiori entrate Iva da utilizzare a copertura della riduzione delle accise.

Da quando avremmo potuto vedere gli effetti del provvedimento? E per quanto tempo? La rideterminazione delle aliquote di accisa è stata applicato dal 22 marzo, che è il giorno di entrata in vigore del decreto legge ai sensi del combinato disposto del comma 2, dell’art. 1, e dell’art. 39, ossia il giorno successivo a quello di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Ci si poteva quindi lecitamente attendere da subito una riduzione del prezzo di vendita pari ai suddetti 30,5 centesimi di euro? La risposta è no, salvo il buon cuore di qualche compagnia petrolifera o distributore stradale. La ragione risiede nelle modalità applicative delle accise sui prodotti petroliferi disciplinate dal D.Lgs. 26.10.1995, n. 504 (c.d. “Testo Unico accise”), che ci torneranno utili per affrontare di seguito un altro tema.

Secondo tale provvedimento (art. 2), l’obbligazione tributaria sorge al momento della loro fabbricazione, compresa l’estrazione dal sottosuolo, ovvero della loro importazione nel territorio dello Stato. Mentre l’esigibilità delle accise (da parte dello Stato) sorge all’atto della immissione in consumo degli stessi prodotti. Lo stesso articolo (al comma 4) individua i soggetti obbligati al pagamento dell’imposta, che sono, essenzialmente, i titolari dei depositi fiscali dei carburanti dai quali avviene l’immissione in consumo e i destinatari registrati che ricevono i prodotti, ossia gli esercenti di impianti di distribuzione stradale dei carburanti. Tra questi non rientrano i consumatori, per i quali, come vedremo in seguito, l’accisa non rappresenta una imposta ma solo una componente del prezzo di acquisto del prodotto.

Da ciò ne consegue che tutti i carburanti stoccati nelle cisterne collocate presso i distributori stradali di carburante sono già stati assoggettati ad accisa nelle misure ordinarie, ante decreto legge.

Dal momento che quest’ultimo non prevede il rimborso delle accise già pagate e che il caso di specie non sembra rientrare tra le ipotesi per chiedere il rimborso ai sensi dell’art. 14, del Testo unico, non ci si può aspettare una riduzione immediata del prezzo di vendita.

Anzi, dovremmo attenderci un mantenimento dei prezzi attuali fino all’esaurimento delle giacenze, fatte salve autoriduzioni del prezzo netto/margine per stimolare la concorrenza e i consumi (si consideri che il comma 5 dello stesso art. 1, prevede l’obbligo di comunicare all’Agenzia delle dogane e dei monopoli entro cinque giorni, la quantità di carburante giacente nei depositi alla data di entrata in vigore del provvedimento, soggetta alle accise ordinarie).

D’altra parte nel weekend abbiamo assistito a una risalita dei prezzi a causa di una tendenza al rialzo delle quotazioni internazionali, cresciute la scorsa settimana di circa sei centesimi al litro per la benzina e di circa 10 per il gasolio.

Oltretutto periodo di efficacia della riduzione, invece, contrariamente alle aspettative, si estende solo per i 30 giorni successivi all’entrata in vigore del decreto, ossia fino al 21 aprile. Cosa succederà dopo Pasqua? Con una durata così limitata e tenendo conto della necessità di esaurire preventivamente le giacenze in deposito, non è difficile immaginare che l’effetto “risparmio” sarà piuttosto limitato.

I problemi per i consumatori sono altri, e attengono sia alla relazione tra l’evoluzione del prezzo di vendita e quello della materia prima sui mercati internazionali, sia alla misura dell’imposizione, data dal valore delle accise e dall’applicazione dell’Iva sulle medesime, ossia di una imposta su un’altra imposta.

La catena che porta dal pozzo al distributore di benzina è lunga, e se usualmente assistiamo a una precisa correlazione tra aumento del prezzo del Brent o della quotazione internazionale Cif dell’area mediterranea e prezzo di vendita del carburante (al netto delle tasse), altrettanto usualmente non notiamo la stessa correlazione quando l’andamento dei prezzi alla fonte diminuisce. Ma la sua verifica implicherebbe svolgere considerazioni che esulano dall’oggetto principale di queste note.

Se ci soffermiamo sugli altri due aspetti, e se assumiamo i dati forniti dall’Unione petrolifera riferiti al mese di febbraio, nel contesto internazionale, possiamo renderci conto di alcune anomalie.

Se il prezzo netto dei carburanti, in Italia pari a 0,744 €/litro per la benzina e 0,749 €/litro per il gasolio, è inferiore a quello medio dell’area euro, rispettivamente pari a 0.793 €/litro e 0,822€/litro, e a quello medio dell’Ue a 27, pari a 0,782 € e 0,817 €, ciò che si differenzia nettamente è il carico fiscale, accise più Iva. In Italia raggiunge 1,052 €/litro per la benzina e 0,918 €/litro per il gasolio, a fronte di un valore medio dell’area euro, rispettivamente pari a 0,952 €/litro e 0,784 €/litro, e di quello medio dell’Ue a 27, pari a 0,899 € e 0,751 €.

Questi valori portano a un prezzo medio alla pompa, sempre nel mese di febbraio, pari a 1,797 €/litro per la benzina e 1,667 €/litro per il gasolio in Italia, a fronte di un prezzo medio dell’area euro, rispettivamente pari a 1,745 €/litro e 1,606 €/litro, e di quello medio dell’Ue a 27, pari a 1,681€ e 1,568 €. Certo, poi ci sono dei Paesi a noi confinanti o vicini, i cui prezzi medi dei carburanti sono inferiori: l’Austria € 1,439/1,430, la Slovenia € 1,371/1,465, la Croazia € 1,524/1,520. Persino il Lussemburgo registra prezzi più bassi, € 1,527/1,440.

Se volessimo aggiornare i dati al prezzo alla pompa di questi ultimi giorni, non dovremmo fare altro che tenere fisso l’importo delle accise e dell’Iva correlata, e scopriremmo che la differenza è tutta imputabile alla variazione del prezzo netto di vendita e della relativa Iva.

Considerando la quota del carico fiscale in termini percentuali sul prezzo di vendita della benzina e del gasolio, noteremo che in Italia raggiunge, rispettivamente, il 58,54% e il 55,07%, a fronte di una media Ue a 27, del 53,48% e del 47,89%, e di una media dell’area euro del 54,56% e del 48,82%.

Ancora più sconvolgente appare il livello del carico fiscale rispetto alla base imponibile, rappresentata come detto dal prezzo netto di vendita: il Italia raggiungiamo, rispettivamente, il 141,40% e il 122,56%, a fronte di valore medio dell’Ue a 27 del 114,96% e del 91,92%, e di un valore medio dell’area euro, pari al 120,05% e al 95,37%.

In questo caso il problema, come anticipato innanzi, è duplice: la dimensione delle accise, che benché singolarmente definite e nominate a rappresentare una imposta di scopo sono ormai prive di scopo [1], e l’applicazione dell’Iva sulle stesse accise.

Quanto al primo aspetto, non possiamo che osservare che la loro quantificazione rappresenta una scelta di politica fiscale che risponde, da un lato, a coprire una esigenza di gettito, e dall’altro, a scoraggiare i consumi di prodotti inquinanti.

La seconda particolarità discende invece dal fatto che il consumatore non è il diretto soggetto passivo delle accise, le quali, concorrendo a formare il prezzo di vendita, diventano esse stesse base imponibile su cui si applica l’Iva.

Ovviamente tale trattamento trova il suo fondamento giuridico nelle disposizioni normative comunitarie e nazionali.

In primo luogo la Direttiva n. 2006/112/CE del 28.11.2006 e successive modifiche e integrazioni, il cui art. 73 dispone che per le cessioni di beni “la base imponibile comprende tutto ciò che costituisce il corrispettivo … da versare al fornitore”, e il cui art. 78, stabilisce che “nella base imponibile devono essere compresi … a) le imposte, i dazi, le tasse e i prelievi” con la sola eccezione della stessa Iva.

foto di Robert Linder per Unsplash

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Numerose sono le sentenze della Corte di Giustizia Ue che, stante il tenore letterale delle norme, non hanno potuto fare altro che confermare il principio innanzi evidenziato (per esempio, CGUE 23.9.1988, causa C-230/87; 10.6.2006, causa C-98/05; 22.12.2010, causa C-433/09; 28.7.2011, causa C-106/1024.10.2013, causa C-440/12).

In secondo luogo la normativa nazionale di cui al D.P.R. n. 633/1972, il cui art. 13, si è adeguato alla suddetta disciplina, stabilendo che la base imponibile delle cessioni di beni “è costituita dall’ammontare complessivo dei corrispettivi dovuti al cedente … compresi gli oneri e le spese inerenti all’esecuzione …”, e il cui art. 15 ha escluso dalla base imponibile le sole “somme dovute a titolo di rivalsa dell’imposta sul valore aggiunto”.

Anche la giurisprudenza nazionale ha confermato tale impostazione (i.e. Cass. n. 5362/2014; n. 2614/2019), con le recenti sentenze della CTP di Milano n. 789/2022, della CTR del Friuli Venezia Giulia n. 92/2020. Nemmeno la CTR Lombardia sent. n. 712/2022, commentata su Il Sole 24 Ore del 15.3.2022, ha potuto accendere un barlume di speranza per una diversa soluzione al problema, perché il thema decidendum riguardava gli oneri generali del sistema elettrico (OGSE). Nella pronuncia i giudici hanno rilevato che detti oneri non hanno la struttura tributaria analoga a quella delle accise armonizzate o dell’Iva, per cui non entrano nella base imponibile dell’Iva in quanto non costituiscono il corrispettivo pagato dall’utente al fornitore nell’ambito del rapporto contrattuale che li lega, ma si configurano come oneri economici posti dalla legge a carico dell’utente, e che il fornitore si limita a riscuotere da quest’ultimo per versarli alla competente autorità statale.

In buona sostanza, il problema risiede nella normativa europea che dovrebbe essere modificata per escludere dalla base imponibile Iva quelle somme, come le accise, che comunque sono e mantengono la natura di imposte ad ogni passaggio del bene da un soggetto ad un altro, indipendentemente dalla lunghezza della catena delle cessioni. L’idea che una imposta rappresenti la base imponibile di un’altra imposta che grava sui medesimi consumi (e disciplinata dal medesimo ordinamento giuridico) appare, infatti, aberrante o, per essere più cauti, difficilmente comprensibile.

Quanto all’efficienza della soluzione adottata dal Governo per calmierare il prezzi dei carburanti, non si può non osservare come sembra destinata a suscitare notevoli dubbi, indipendentemente dal “successo” raggiunto in ordine alle modalità di copertura finanziaria, che non intaccherebbero i saldi di finanza pubblica.

Considerata la temporaneità dell’iniziativa – troppo breve quella stabilita per produrre risultati significativi – che, viceversa, avrebbe potuto essere estesa (o limitata) alla durata del conflitto in Ucraina, forse sarebbe stato più opportuno optare per un più efficiente regime di prezzi amministrati.

Ma, come sempre, si tratta di scelte di politica fiscale che sottendono una diversa visione economica e di equità. A quanto pare, però, sembra che tutta la politica fiscale che coinvolge il settore energetico sia frammentata e superficiale – ossia non riesca ad incidere realmente su chi, in situazioni così difficili sui mercati, riesce comunque ad ottenere dei vantaggi straordinari di semplice “posizione” – e utilizzi sistemi che in punto di diritto lasciano molto a desiderare.

Non dimentichiamo il “meccanismo di compensazione a due vie”, ex art. 14, D.L. 27.1.2022, n. 4, introdotto quando si parlava di una nuova Robin Hood Tax, e quello più recente del “contributo straordinario contro il caro bollette” ex art. 37, D.L. 21.3.2022, n. 21, che sembra una addizionale o una sovraimposta Iva, vista la metodologia di calcolo, piuttosto che una nuova imposta indiretta sul modello Irap che si vuole abolire, sul quale sono già stati sollevati dubbi di legittimità costituzionale proprio sulle pagine de Il Sole 24 Ore (L. Salvini, Sugli extraprofitti prelievo a rischio costituzionalità, del 23.3.2021). A parte la struttura confusa e non equa del tributo, c’è il tema della indeducibilità dal reddito d’impresa e le scarse garanzie a tutela dell’obiettivo di evitare la traslazione dell’onere sui consumatori. Altrimenti lo scopo principale non sarebbe raggiunto.

Il fatto che questi oneri si chiamino “prelievo solidaristico straordinario” o in altro modo, non significa che non siano configurabili come “tributi”, soprattutto se per regolarne l’accertamento, la liquidazione ecc., si richiamano le norme che disciplinano i tributi a cui si ispirano. Per cui la loro struttura deve essere sapientemente disegnata e deve rispondere a determinati requisiti tecnici e di legittimità costituzionale (F. Ghiselli, Bollette alle stelle e imposta sui sovra profitti, i paletti della Consulta, del 26.1.2022, qui) che, evidentemente, appaiono ampiamente e inaspettatamente sottovalutati.

TWITTER @GhiselliFabio1

 

NOTA

[1] Le 19 accise applicabili sui prodotti petroliferi sono; “Guerra d’Etiopia del 1935-1936: 1,90 lire (0,000981 euro); Crisi di Suez del 1956: 14 lire (0,00723 euro); Ricostruzione dopo il disastro del Vajont del 1963: 10 lire (0,00516 euro); Ricostruzione dopo l’alluvione di Firenze del 1966: 10 lire (0,00516 euro); Ricostruzione dopo il terremoto del Belice del 1968: 10 lire (0,00516 euro); Ricostruzione dopo il terremoto del Friuli del 1976: 99 lire (0,0511 euro); Ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980: 75 lire (0,0387 euro); Missione ONU durante la guerra del Libano del 1982: 205 lire (0,106 euro); Missione ONU durante la guerra in Bosnia del 1995: 22 lire (0,0114 euro); Rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004: 0,02 euro; Acquisto di autobus ecologici nel 2005: 0,005 euro; Emergenza terremoto in Abruzzo del 2009: 0,0051 euro; Finanziamento alla cultura nel 2011: da 0,0071 a 0,0055 euro; Gestione immigrati dopo la crisi libica del 2011: 0,04 euro; Emergenza alluvione Liguria e Toscana del novembre 2011: 0,0089 euro; Decreto ‘Salva Italia’ del dicembre 2011: 0,082 euro (0,113 sul diesel); Emergenza terremoti dell’Emilia del 2012: 0,024 euro; Finanziamento del ‘Bonus gestori’ e riduzione delle tasse ai terremotati dell’Abruzzo: 0,005 euro; Spese del ‘decreto Fare’ del 2014: 0,0024 euro.