categoria: Draghi e gnomi
La guerra, le sanzioni alla Russia e i rischi che corrono gli italiani
Post di Francesco M. Renne, commercialista e revisore, faculty member CUOA Business School, formatore in materie finanziarie e fiscali –
Quello che sta accadendo in questi giorni ci pone di fronte ad una (brutale) realtà. La drammaticità di una guerra che (forse) si poteva evitare, ma che invece è qui alle porte e – a prescindere dalle colpe vere o presunte – coinvolge (anche) il nostro Paese, seppur indirettamente. Tutti, credo, auspichiamo che si interrompa al più presto e che non ci siano più vittime (inutili), ripristinando quindi il diritto internazionale e la sovranità di un Paese aggredito, ma al contempo ci interroghiamo su cosa potrebbe succedere se così non fosse. E non solo sotto il profilo geopolitico, ma anche sotto il profilo finanziario e della tenuta della nostra (fragile) economia.
Già, il “binario economico” delle guerre, a volte, determina degli effetti di non facile comprensione. Molte domande si aggiungono alle preoccupazioni per le vittime civili, il destino dei profughi e i rischi di una futura escalation ulteriore, e si sovrappongono confusamente fra loro. Domande alle quali occorre (provare a) dare qualche risposta. Le sanzioni finanziarie adottate, servono? Quali effetti avranno? E quali conseguenze ci saranno, per noi? Le bollette energetiche e le nostre esportazioni che fine faranno? Cosa possiamo fare, in concreto, per ridurre i rischi? Quali effetti fiscali ci saranno, se la situazione dovesse peggiorare?
Per rispondere razionalmente a queste domande, occorre prima fare un passo indietro.
Il “peso” degli scambi commerciali italiani con la Russia (fonte CDP) indicano una certa dipendenza sul comparto delle estrazioni minerarie e delle risorse energetiche, che contribuiscono per circa il 60% del volume delle importazioni da quel Paese, ma che costituiscono solo il 3% del totale delle importazioni italiane e solo l’1,5% del nostro export (seppur concentrato in alcuni settori specifici).
La (presunta) grande ricchezza della Russia, in termini di PIL, è discutibile, poiché il suo valore è di poco inferiore a quello della sola Italia, è pari a un decimo di quello dell’Unione Europea, a sua volta di un quarto inferiore a quello americano. Invero, vanta un continuo afflusso di valuta pregiata per le sue esportazioni di gas e prodotti petroliferi, che determinano indirettamente ingenti risorse valutarie pubbliche (poco più di 600 miliardi, a quanto si apprende), di cui gran parte detenute all’estero. E, nondimeno, fortissime disuguaglianze (spesso improvvidamente dimenticate, nelle discussioni sull’equità dei sistemi liberaldemocratici) nella distribuzione della ricchezza interna, in termini di comparazione fra “grandi patrimoni” (spesso detenuti all’estero) degli oligarchi e/o di alcuni imprenditori (spesso residenti in occidente) e disponibilità finanziaria media pro-capite della popolazione “normale”.
Ciò ricordato, è evidente che “colpire” la disponibilità delle risorse detenute all’estero (sia quelle pubbliche che quelle di pertinenza dei soggetti legati all’attuale regime) con sanzioni finanziarie “mirate” ha la sua ragion d’essere pragmatica. Il blocco dei conti e dei beni patrimoniali degli oligarchi (se ben attuato), delle riserve valutarie pubbliche detenute all’estero (soprattutto), l’esclusione (parziale, per ora) dal circuito swift, adottato da USA e UE (e recepito – non sorprendentemente, per gli addetti ai lavori – anche dalla pur sempre neutrale Svizzera) è dunque mossa (si spera) sostitutiva di una guerra sul terreno e contribuisce a rendere meno sostenibili gli sforzi bellici russi nel tempo.
Gli impatti non si sono fatti attendere: crollo sensibile e repentino del rublo sia sul dollaro (da 83 a 118, con picco offerto da una banca a 171) che sull’euro (da 0,011 a 0,008), tensioni sulle banche (sui prelievi e sulle controllate estere, una delle quali andata in default), necessità di adottare misure come la chiusura della borsa di Mosca, blocco dei ritiri di valute e di trasferimento fuori dalla Russia di importi superiori a un controvalore oggi pari a circa diecimila euro, obbligo di conversione dell’80% delle valute estere comunque detenute (da imprese o da privati che sia), blocco del pagamento di cedole (su titoli sottoscritti da investitori internazionali) per circa 29 miliardi di dollari, inflazione rilevata in continua ascesa. Insomma, uno scenario non certo agevole che, nelle intenzioni, dovrebbe indurre a pressioni interne dell’opinione pubblica (ove non silenziata) per far fermare la macchina bellica.
L’economia russa non potrà durare tanto, sotto queste sanzioni, si dice (salvo trovare velocemente soluzioni di approvvigionamento valutario alternative, magari tramite canali cinesi o attraverso cryptoasset). Ma occorre intendersi di quale orizzonte si stia parlando con la locuzione “tanto”. Non di (pochi) giorni, più probabile (diverse) settimane se non di (parecchi) mesi. E, nondimeno, occorrerà – affinché funzionino a regime – ridurre la dipendenza energetica dell’Europa da gas e petrolio russo, al fine di ridurre l’afflusso di valute occidentali.
Ma queste sanzioni presuppongono, appunto, un “costo” anche per l’occidente; sostenibile oggi ma (forse) non illimitatamente nel tempo. Non almeno se non si intervenga con una opportuna (e celere) modifica dell’approvvigionamento energetico europeo (e soprattutto italiano).
I (veri) rischi per il mondo occidentale, sotto il profilo finanziario, risiedono nell’esposizione di crediti con controparti russe (Italia e Francia su tutti), sia per affidamenti che per operazioni import/export e/o di trade finance, nel crollo dei valori degli investimenti finanziari in emittenti russi e/o denominati in rubli (blocco cedole, blocco disinvestimenti, svalutazioni di titoli quotati) che tocca non solo i gestori patrimoniali dei fondi che vi investivano e le banche che li intermediavano, ma anche i risparmiatori privati (“fai da te” o meno che siano). Decurtazione di parte degli attivi finanziari privati occidentali, insomma; cioè un “costo” da sostenere per arrivare alla pace, rifacendosi a un vecchio detto economico che recita “non esistono pasti gratis”.
E, in più, si genera ulteriore pressione sul tema inflazione delle materie prime (già in rialzo prima dell’inizio della guerra) e sui tassi d’interesse (con probabili aumenti in vista, secondo alcune stime), con conseguente incertezza sul consolidamento della ripresa economica post pandemia (e magari necessità di rivedere talune allocazioni di risorse finanziarie del PNNR).
È dunque possibile (provare a) dare qualche risposta alle domande iniziali?
In rapida successione: Le sanzioni finanziarie adottate servono (eccome); hanno effetti immediati di deterrenza, ma scemano nel lungo periodo per ragioni di sostenibilità reciproca; ci espongono a maggiori rischi energetici ed economici su cui saremo chiamati ad intervenire strutturalmente. E cosa possiamo fare, in concreto, per ridurre questi rischi? Rischi che, invero, espongono il nostro Paese al possibile utilizzo della leva fiscale per reagire ai citati (solo eventuali, per ora) effetti economici negativi.
Due mosse meriterebbero di essere prese in considerazione (oltre ad una maggiore diversificazione delle fonti energetiche).
Per sostenere le imprese, l’introduzione normativa, in deroga alle regole attuali dell’european financial framework, di forme di finanziamento cd. “matusalem financing”, cioè di lunghissimo periodo (vent’anni o più), che ridurrebbero – con apposite garanzie pubbliche analoghe a quelle decise per i finanziamenti speciali pandemici – lo sforzo finanziario delle aziende (soprattutto per le filiere industriali interessate e magari per quei settori non ancora usciti dalla crisi) nei piani di rimborso, magari accompagnate da apposite attestazioni periodiche professionali di rispetto di specifici covenants di bilancio.
Per evitare invece il ricorso ad inasprimenti fiscali (i.e. imposte patrimoniali), che si rendessero necessari per compensare la contrazione futura dell’economia, la costituzione di un fondo di investimento pubblico/privato – incentivato attraverso una fiscalità agevolata che ne renda attraente la sottoscrizione – destinato agli investimenti legati alla transizione energetica strutturale, così da liberare risorse pubbliche, originariamente lì destinate, per far fronte agli eventuali maggiori deficit futuri derivanti dal protrarsi della contingenza bellica.
L’incertezza è tuttora molto (troppo) elevata, per avere granitiche certezze; ma a volte, ragionare sulle cose aiuta ad avere una “bussola” con la quale orientarsi. Comunque la si metta, in tempi emergenziali come questi, occorre maggiore razionalità e meno populismo.