categoria: Res Publica
Reddito minimo universale, è davvero l’arma finale contro la povertà?
Post a cura di Luca Battaglia, Carlo Giannone, Bruno Salerno, Lorenzo Tropea, fondatori di Pillole di Politica –
Tra i grandi temi che stanno suscitando il dibattito internazionale tra economisti, filosofi e istituzioni, il reddito minimo universale (RMI) assume una rilevanza significativa.
Per quale ragione? In cosa consiste? Quali Paesi stanno già applicando questa politica?
Il reddito minimo universale è una misura che garantirebbe a tutti i cittadini di un Paese, in maniera universale ed incondizionata, un reddito di base. Non ci sono differenze tra ricchi e poveri, lavoratori attivi e inattivi. L’obiettivo di una politica di questo tipo è quello di assicurare a chiunque una soglia di sussistenza minima, per fronteggiare le spese quotidiane e cercare di diminuire le disparità economico-sociali presenti all’interno di una nazione. Nell’ultimo periodo si è sentito parlare molto di “universal basic income”, e questo è accaduto perché negli ultimi 20 anni i Governi hanno cercato di ricorrere a strumenti per fronteggiare le crisi economiche. E’ dunque un tema di estrema attualità viste le notevoli conseguenze che la pandemia ha lasciato. I sostenitori di questa misura pensano che sia il mezzo più efficace per porre fine alla povertà, ma è giusto fare un’attenta analisi per poter capire nello specifico i vantaggi e gli svantaggi di questa misura, cercando di analizzare la sua implementazione nei Paesi che l’hanno adottata.
In primo luogo, l’RMI aiuterebbe a ridurre le diseguaglianze economiche e sociali stimolando i consumi di base e consentendo spese essenziali e redistributive quali la formazione scolastica. Viene sollevata l’obiezione che offrire un reddito a tutti a prescindere dal reddito non aiuti nessuno, lasciando le diseguaglianze immutate. L’obiezione e’ corretta difatti il meccanismo viene solitamente adottato ad ora solo a favore delle classi svantaggiate, come è giusto che sia.
L’RMI contrasterebbe inoltre l’emorragia occupazionale che ci si attende con l’avvento della digitalizzazione e la conseguente obsolescenza delle capacità lavorative di buona parte della popolazione mondiale.
Questa misura viene però criticata in quanto il generale rialzo della ricchezza globale potrebbe essere controbilanciato dalla crescente inflazione che andrebbe ad annullare l’effetto di questa politica. L’inflazione tuttavia rappresenta un problema solo se si ha nuova offerta di moneta. L’ostacolo è superabile offrendo l’RMI sotto forma di benefici fiscali o rimodulazione dei sussidi di assistenza offerti da ciascun Stato.
Altri esperti sostengono che l’RMI disincentivi a trovare il lavoro ma l’argomentazione può essere confutata dimostrando come questo non avrebbe l’ampiezza di un salario, bensì corrisponderebbe ad una cifra minima che possa permettere spese di base necessarie per la sopravvivenza dell’individuo.
Già dal ‘92, in Europa le Istituzioni invitano gli Stati Membri ad intervenire contro l’emarginazione sociale. In questi trent’anni tutti gli Stati UE hanno introdotto, seppur in maniera eterogenea, forme di sostegno a favore delle famiglie più indigenti e, insieme alla Grecia, l’Italia è stata tra le ultime a introdurre questo genere di misure.
In tutta l’UE sono diverse le forme di aiuto garantite: in Francia è presente un Reddito di Cittadinanza che mira a sostenere chi ha più di 25 anni e non ha un salario o si trova al di sotto della soglia di povertà. Il sussidio non ha limitazioni temporali e varia dai 565,34 euro per una persona a 1187,21 euro per una coppia con due figli; anche in Lussemburgo, Cipro e Spagna è presente un Reddito per l’inclusione sociale, progettato per soggetti con più di 25 anni, siti nelle più basse fasce di reddito; in Germania, invece, viene avviato uno studio triennale su 120 persone, a cui verranno garantiti 1200 euro mensili senza alcuna condizione, confrontando la loro esperienza con un gruppo di controllo di riferimento.
Fuori dai confini europei spiccano i casi di Alaska e Nuova Zelanda. Per quanto concerne l’Alaska, si tratta del primo paese al mondo ad aver istituito il Reddito di Cittadinanza puro, che varia oggi dai 900 dollari ai 2000 dollari al mese; un sistema nascente nel 1982, anno a partire dal quale lo Stato decide di destinare tutti i dollari in arrivo dalle royalties generate dal proprio boom petrolifero.
Relativamente alla Nuova Zelanda viene previsto un salario minimo di 20 dollari all’ora, tra i più alti al mondo. Un processo di crescita che sottolinea l’importanza, per la nazione, dei lavoratori con salari minimi, il cui ruolo è stato definito fondamentale soprattutto dopo lo scoppio della pandemia COVID-19.
La vera grande svolta in Italia si ha con le indicazioni fornite dalla Commissione Onofri (1997), istituita dall’allora Presidente del Consiglio Romano Prodi. Tra gli obiettivi vi era quello di garantire un reddito minimo, definito su criteri universalistici e standardizzati e che andasse a rappresentare non una misura discrezionale, ma un vero e proprio diritto soggettivo di cittadinanza. Fin qui tutto bene, ma cos’è andato storto? Tra le motivazioni che hanno portato un notevole ritardo nell’applicazione nel territorio italiano del reddito minimo vi è sicuramente la difficoltà nell’introdurre nuove misure di spesa. In secondo luogo la diversità tra Nord e Sud è una determinante fondamentale del livello di disuguaglianza nella distribuzione dei redditi personali in Italia. Si tratta quindi di gestire uno strumento che viene indirizzato ad un numero contenuto di individui nelle regioni settentrionali, contro il potenziale largo accesso garantito al meridione.
Solo in tempi più recenti si è avviato un percorso che mira a garantire un reddito minimo agli individui al fine di contrastare la povertà e l’esclusione sociale. Il reddito di cittadinanza, introdotto dalla legge n. 26/2019, rappresenta uno schema non categoriale di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale basato sul criterio dell’universalismo selettivo. Tale strumento risulta essere condizionato all’adesione di un programma di reinserimento lavorativo al fine di collegare la funzione di sostegno al reddito, volto a garantire ai beneficiari uno standard minimo di vita, alla funzione svolta dalle politiche attive del lavoro. L’obiettivo da perseguire in Italia nel lungo termine, deve essere quello di garantire una forma di sostegno al reddito che venga stabilmente finanziata, e che non sia, come spesso è successo, manifesto elettorale destinato a disintegrarsi a pochi anni dalla sua implementazione.
L’implementazione crescente dell’RMI è destinata a suscitare un grande dibattito internazionale. Ma di fronte alle enormi diseguaglianze economiche a cui si assiste e alla digitalizzazione del lavoro, verrà sempre più difficile esserne contro.