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Competenze, l’Italia è un’anomalia europea e non è una buona notizia
Post di Cecilia Ivardi Ganapini, dottoranda in politica economica e assistente di ricerca all’Università di San Gallo –
Potenziare il capitale umano delle nostre società al fine di generare crescita economica è una delle poche certezze in cui ripongono fiducia quasi tutte le nazioni o i leader politici del capitalismo avanzato. Già da almeno vent’anni le economie europee cercano di sviluppare piani per potenziare il proprio capitale umano. Il primo a trattare questo tema fu l’economista Arthur Pigou, che nel 1928 osservò che, proprio come è economicamente conveniente badare ai macchinari nelle catene di produzione, oliarne gli ingranaggi e cercare di mantenerli funzionanti il più a lungo possibile, investire nell’educazione e nello sviluppo delle competenze degli esseri umani (aumentare il “capitale umano”), può aumentare i loro salari, generando crescita economica.
La nozione di capitale umano è diventata negli ultimi anni una base fondamentale delle politiche di sviluppo della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, ma anche delle politiche nazionali e internazionali in Europa. In questo contesto, le competenze hanno acquisito un’importanza straordinaria in tutte le discussioni legata al mercato del lavoro e alla disoccupazione. Il Segretario Generale dell’OCSE, Angel Gurría, già nel 2012 aveva dichiarato che le competenze sono “la moneta globale delle economie del XXI secolo”. Sviluppare skills è ritenuto fondamentale per (ri-)orientare la forza lavoro in un mercato che cambia in continuazione, permettendo ai lavoratori di aggiornare i propri profili e offrendo opportunità a coloro che cercano impiego. Questo è sempre più importante in un mondo in costante evoluzione a causa dei progressi della tecnologia, che deve continuamente aggiornare le proprie competenze digitali e non.
Tuttavia, sviluppare le competenze non è così facile. Nelle medesime discussioni riguardanti i mercati del lavoro e la disoccupazione, si fa costante riferimento alla carenza o al “mismatch”. La carenza di competenze (skill shortage) indica l’assenza di forza lavoro con le qualità necessarie a una determinata azienda o settore. Questo è spesso collegato alla obsolescenza delle competenze, cioè la carenza nei professionisti di conoscenze aggiornate, necessarie a fornire prestazioni efficaci per le necessità delle imprese. Solitamente, lo skill shortage in alcuni settori è compensata da un surplus in altri settori che, già saturi, non offrono opportunità di impiego. A livello europeo, l’OCSE (2017) rileva che le carenze principali si trovano nei campi delle conoscenze informatiche, matematiche, elettroniche, dell’educazione e medico-sanitarie. Queste carenze sono particolarmente accentuate in paesi quali la Finlandia, il Belgio e i Paesi Bassi. Inoltre, dal punto di vista occupazionale, le carenze più gravi sono nelle professioni che adoperano differenti competenze di alto livello allo stesso tempo. Questo non è sorprendente in un’era in cui l’automazione di numerosi processi produttivi automatizza facilmente le attività ripetitive e di routine.
In Italia, il quadro è abbastante peculiare per il contrasto tra la situazione a livello delle imprese e a livello dei lavoratori. L’OCSE evidenzia che le aziende italiane non soffrono di carenza di competenze quanto altre aziende europee. Infatti, le carenze sono in generale meno pronunciate, e sono sostanziali solo in alcuni settori ben precisi. Per esempio, è questo il caso del settore informatico o delle conoscenze ingegneristiche. Spostandosi dal livello aziendale a quello individuale, è interessante notare la scarsissima performance degli italiani nell’indagine OCSE PIAAC volta a valutare le competenze della popolazione adulta. Da questa indagine emerge che il livello dei lavoratori italiani nel campo delle competenze linguistiche e matematiche è inferiore alla media degli altri paesi (OCSE 2013). Tuttavia, a livello delle imprese, non si rileva una carenza di competenze generale paragonabile a quella riscontrata nella maggioranza dei paesi europei. Come è possibile?
Anche se l’Italia non soffre di carenza di competenze come gli altri paesi, questo non dovrebbe essere motivo di esultanza. Infatti, l’indagine PIAAC rileva che le competenze linguistiche e matematiche sono inferiori in Italia rispetto alla media dei paesi dell’OCSE, un dato che rappresenta soprattutto la fascia di popolazione tra i 55 e i 65 anni. Non solo, ma le stesso competenze sono significativamente meno utilizzate dai lavoratori italiani, rispetto alla controparte europea (OCSE 2013). Questo è perché la struttura produttiva del paese richiede competenze basse alla forza lavoro, rispetto alla media dell’OCSE. Il tessuto imprenditoriale italiano, costituito per la maggior parte da piccole-medie imprese, richiede una forza lavoro con competenze di livello della scuola media superiore e/o con specializzazioni tecniche. Questo, però, è sempre meno il background della forza lavoro italiana, che negli ultimi anni è sempre più educato a livello universitario, come mostrato nel grafico seguente.
In generale, le statistiche dimostrano che più competenze ha un lavoratore (misurate in termini di titoli di studio), più è facile che trovi un buon impiego (come mostrato nel grafico seguente).
Come dimostrato, in Italia c’è abbondanza di competenze anche di livello alto, e la sfida rimane canalizzare la giovane e competente forza lavoro. Questo è molto difficile, come dimostrato dall’elevato livello di mismatch di competenze, che indica che una quantità significativa della forza lavoro è troppo o troppo poco qualificata per il lavoro che svolge. Per invertire questa tendenza, secondo l’OCSE, le aziende devono attivamente innovare i propri processi produttivi, rendendoli più knowledge intensive, in modo da sfruttare le competenze disponibili. Allo stesso tempo, le imprese devono attivare processi di re-training interno, in modo da aggiornare le competenze dei lavoratori e portarle al passo con la tecnologia recente. Date le scarse risorse delle PMI per fare questo autonomamente, l’OCSE incoraggia lo stato ad incentivare la crescita del proprio tessuto aziendale, attraverso incentivi fiscali, come sta avvenendo nell’ urgente contesto della pandemia del Covid-19.