categoria: Res Publica
Acqua, la scelta è sempre in bilico: privatizzata o pubblica?
Post di Mari Miceli, avvocato del Foro di Trapani, consulente tecnico per il Fondo FEASR presso l’Assessorato dell’agricoltura, dello sviluppo rurale e della pesca mediterranea della Regione siciliana –
La water economy è una scienza dedicata espressamente alle modalità di gestione delle risorse idriche per soddisfare i bisogni dell’uomo senza danneggiare troppo le risorse idriche stesse e l’ambiente. Il Servizio Idrico nell’ottica del Pnrr e delle politiche di privatizzazione dell’attuale Governo, potrebbe essere gestito privatamente.
Ma vediamo cosa vuol dire vantare diritti di proprietà privata sull’acqua. In altre parole, si ammette la compravendita delle risorse idriche come per qualsiasi altro bene, da parte di un privato che le “possiede”. Privatizzare significa anche, scegliere di affidare i servizi idrici a una gestione privata. In questo modello, operatori privati intervengono in vario modo per gestire l’acqua (dall’estrazione alla raccolta, fino alla distribuzione), che resta comunque un bene comune.
Un terzo modello, infine, prevede il finanziamento privato di infrastrutture e servizi. È bene precisare che, già nel lontano 2009, il dibattito sui beni comuni si era incentrato anche sulla cosiddetta privatizzazione dell’acqua stabilita dal d.l. 25 settembre 2009, n. 135, successivamente abrogato con il referendum del 13 giugno 2011.
Il decreto di cui sopra aveva diviso le posizioni tra chi riteneva di privatizzare l’acqua, affidandone la gestione a soggetti privati, e chi riteneva che l’acqua, essendo bene comune, dovesse rimanere pubblica.
Basti ricordare le posizioni di Ugo Mattei, professore di Diritto privato all’Università di Torino e autore dei quesiti referendari per l’acqua “bene comune” del 2011. Mattei ha definito una “coazione a ripetere quasi patologica” l’affidamento ai privati di beni comuni, così come avvenuto per il sistema autostradale.
Chi sostiene, invece, la privatizzazione ritiene che non si tratti di una vera e propria liberalizzazione, in quanto si vuole liberalizzare il servizio idrico e non il bene comune acqua in sé, che resterebbe di converso pubblico.
Tuttavia “trattandosi di acqua potabile, adatta al suo scopo soltanto nella misura i cui captata, purificata e distribuita, chi controlla il processo distributivo (il servizio quindi) in realtà ne determina la accessibilità al bene e dunque, è portatore della più centrale fra le prerogative proprietarie”. [in Fratini, p.390]
Altro aspetto fondamentale che consente di approfondire la prospettiva del godimento è il rilievo che assume il bene comune. Tale bene è, infatti, ed a prescindere da una sua articolazione all’interno del diritto pubblico o privato, un bene che fornisce un’utilità ad collettività diffusa, per cui la sua funzione verrebbe meno qualora non sia ragionevolmente e diffusamente accessibile.
Pertanto, sarebbe questo il punto a cui fare attenzione tra le facoltà dominicali, quale godimento del bene come aspetto principale.
Sul punto, lo scorso maggio, con la pronuncia n. 3809, la sesta Sezione del Consiglio di Stato si è espressa in materia di Servizio idrico integrato.
La Sezione si è preliminarmente soffermata sul servizio idrico integrato, così definito, perché comprensivo di più segmenti produttivi: “L’attività di captazione dalla falda, la potabilizzazione, la distribuzione, il trasporto dei reflui nella fognatura, la depurazione della risorsa idrica”. La Sezione ha spiegato che si tratta di un servizio di interesse economico generale, in quanto attività economica prestata dietro corrispettivo economico, ma “che al tempo stesso non sarebbe assicurata dal mercato senza un intervento statale” (o lo sarebbe ma in condizioni difformi da quelle giudicate coerenti con gli obiettivi di interesse generale). Di tale attività sono, quindi, regolati diversi aspetti: la dimensione gestionale (organizzata sulla base di ambiti territoriali ottimali definiti dalle regioni sulla base di parametri fisici, demografici, tecnici), la struttura operativa, le modalità di affidamento (secondo il principio di unicità della gestione per ciascun ambito), le dotazioni infrastrutturali, il contenuto del rapporto convenzionale tra concedente e gestore, il corrispettivo contrattuale del rapporto di utenza.
La vigente disciplina del servizio idrico integrato – a partire dalla legge “Galli”, legge 5 gennaio 1994, n. 36, i cui contenuti sono stati poi in larga misura trasposti nel decreto legislativo n. 152 del 2006 – ha inteso superare le precedenti gestioni pubbliche in economia, considerate ormai inadeguate per un’efficace amministrazione del settore. La trama regolativa della sopracitata legge, riflette una precisa “misura compositiva” tra fini sociali (l’erogazione di un bene fondamentale ma scarso) e sostenibilità economica. Si tratta di una scelta di politica nazionale, in quanto la normativa europea in materia di acque (Direttiva 2000/60/UE) non contiene indicazioni rigide sull’organizzare il servizio idrico come un servizio a rilevanza economica, in buona parte suggerita dalla circostanza che il sistema idrico italiano sconta, come è noto, un pesante debito infrastrutturale.
L’uniforme metodologia tariffaria adottata dalla legislazione statale deve, in primo luogo, quindi, “garantire sull’intero territorio nazionale un trattamento uniforme alle varie imprese operanti in concorrenza tra loro” [Consiglio di Stato 3809/2021]. Il nesso con la tutela della concorrenza si spiega anche perché la regolazione tariffaria deve assicurare l’equilibrio economico-finanziario della gestione e l’efficienza ed affidabilità del servizio (art. 151, comma 2, lettere c, d, e, del codice dell’ambiente), attraverso il meccanismo di price cap (artt. 151 e 154, comma 1, del codice dell’ambiente), “diretto ad evitare che il concessionario [recte: gestore] unico abusi della sua posizione dominante” [sentenza n. 246 del 2009, che richiama anche le sentenze n. 335 e n. 51 del 2008].
Va anche precisato che, gli operatori del servizio idrico integrato non sono semplici fornitori di servizi del tutto deresponsabilizzati rispetto al governo del settore, bensì, sono soggetti di un complesso sistema pubblico-privato apprestato per assolvere ai compiti di interesse economico generale.
La stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 26 gennaio 2011, n. 26 – nel verificare a suo tempo, se la struttura del quesito referendario proposto rispondesse alle esigenze di chiarezza, univocità ed omogeneità –, ha ritenuto ammissibile il “quesito, benché formulato con la cosiddetta tecnica del ritaglio”, perché con esso “si persegue, chiaramente, la finalità di rendere estraneo alle logiche del profitto il governo e la gestione dell’acqua”.
Il nodo della questione andrebbe risolto guardando non tanto alla semplice nozione di “bene comune” ma soprattutto, all’uso che ne se fa e dunque, alla concreta e diffusa possibilità di accesso al bene stesso, che ne costituisce il profilo di maggiore rilevanza.