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La risoluzione bancaria creativa all’italiana, secondo episodio
Pubblichiamo un post di Silvia Merler, dal 2013 affiliate fellow del think tank Bruegel, specializzato in politica economica Europea. Nel 2011 Silvia si è laureata in Economics and Social Sciences all’Università Bocconi, con una tesi sugli squilibri di partite correnti e il ruolo dell’indebitamento del settore privato nell’area euro –
UN’ALTRA PUNTATA NELLA SAGA DEI GUAI BANCARI ITALIANI
Ci risiamo, con le banche. Dopo una lunga amministrazione controllata, si è raggiunto il momento della risoluzione per quattro piccole banche (Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara, Popolare Etruria e CariChieti), che in totale contano per circa l’1% dei depositi italiani. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, le conseguenze del piano di risoluzione sono tutt’altro che insignificanti.
All’operazione di ricapitalizzazione ha preso parte anche il fondo italiano di risoluzione, il cui contributo ammonta a circa 3,6 miliardi di euro. Tale strumento è finanziato dalle banche italiane (quindi non si qualifica come capitale pubblico, ndr) ma non ha a disposizione un ammontare definito, 3,6 miliardi appunto. I fondi sono stati perciò “anticipati” da tre grandi banche italiane (UniCredit, Intesa Sanpaolo, UBI). L’anticipo prede la forma di due linee di credito, una a lungo e una a breve termine, e alle altre banche italiane italiane potrebbe essere richiesto di anticipare il loro contributo al fondo di risoluzione fino a un massimo di tre annualità, quest’anno, per assicurare il rimborso della linea di credito a breve.
L’idea di usare anticipatamente tre anni o più di contributi al fondo di risoluzione per evitare un bail-in più estensivo in queste quattro banche è di per sé rischiosa, perché riduce lo spazio di manovra nel caso in cui qualche altro istituto debba avere problemi nei prossimi anni. Ma questo non è l’unico aspetto problematico dell’operazione.
Come noto, parte delle perdite è stata assorbita da azionisti e obbligazionisti subordinati. Questo contributo (“bail-in”) è previsto dal regime europeo sugli aiuti di Stato, ed è un passo obbligato nel nuovo regime di gestione delle crisi bancarie. Il Governo avrebbe considerato l’ipotesi di rimborsare un terzo dei risparmi persi dai piccoli obbligazionisti in quest’operazione. È presto per trarre conclusioni. Ma è lecito richiamare l’attenzione sul fatto che, al di là dell’emozione e della comprensione per coloro che hanno perso dei risparmi in questa operazione, non si tratta di una notizia positiva.
Il tentativo di trovare soluzioni “tortuose” ai problemi delle banche italiane non è una novità, ed è uno dei motivi per cui i problemi del nostro sistema bancario si sono trascinati fino ad oggi.
La liquidazione di Banca Romagna Cooperativa (BRC), avvenuta la scorsa estate, è, per dire, un esempio di soluzione “creativa” volta ad aggirare il vero nocciolo della questione. Dopo un “bail-in” iniziale – la prima volta in Italia – azionisti e obbligazionisti in BRC sono infatti stati rimborsati. Alla radice di questo approccio traspare la consapevolezza di un rischio (potenzialmente molto serio) radicato in profondità nel mondo del risparmio.
Il livello di conoscenza finanziaria nel nostro Paese è, infatti, molto basso: secondo un recente rapporto di Standard & Poors solo il 37% degli italiani si può considerare “finanziariamente alfabetizzato”, ed è una delle percentuali più basse in Europa. La probabilità che i piccoli risparmiatori non siano pienamente coscienti del rischio effettivo degli strumenti bancari che sottoscrivono è perciò molto elevata (come evidenziato anche dalla stessa Banca d’Italia). E il fatto che, in Italia, più del 40% delle obbligazioni detenute dai risparmiatori siano obbligazioni bancarie, espone al rischio di perdite anche significative, come si è visto nel caso più recente.
Il tentativo di preservare i risparmiatori che abbiano investito (non del tutto consapevolmente) in strumenti finanziari relativamente rischiosi può sembrare condivisibile. Ma purtroppo le cose non sono così semplici. Da gennaio del prossimo anno entrerà in vigore la Direttiva Europea sulla Risoluzione bancaria (EU Bank Recovery and Resolution Directive, o BRRD). Si tratta di un insieme di regole volte ad uniformare l’approccio alla risoluzione dei problemi bancari nei Paesi membri, e prevede una serie di importanti cambiamenti rispetto all’approccio prevalente in passato.
In particolare, nel caso in cui una banca si trovasse in futuro a corto di capitale, i creditori privati contribuiranno in misura significativa al salvataggio. La misura può apparire severa, ma in realtà è essenziale per rendere il sistema più solido. La crisi ha mostrato chiaramente che i salvataggi bancari, se finanziati interamente da fondi pubblici, possono essere molto costosi per i contribuenti e mettere in dubbio la sostenibiltà delle finanze dello Stato che se ne fa carico.
L’entrata in vigore della BRRD renderà molto difficile (se non impossibile) l’attuazione di schemi di risoluzione come quelli che abbiamo visto quest’anno, e ci pone quindi prepotentemente di fronte al nostro problema di fondo irrisolto. In un mondo in cui il “bail-in” richiesto in caso di crisi bancarie sarà molto più esteso, è fondamentale che i risparmiatori abbiano una piena consapevolezza del rischio effettivo di quanto sottoscrivono.
Possiamo continuare a nascondere il problema sotto il tappeto dei rimborsi ex-post, e creare l’aspettativa di una protezione fittizia che potrebbe non essere garantita in futuro. Oppure potremmo parlarne seriamente, e riconoscere che il pericolo maggiore non è tanto nel rischio stesso, bensì nell’inconsapevolezza del rischio.
Twitter @smerler