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La farsa smascherata della banca del territorio e dei debitori di riferimento
In Italia improvvisamente la gente scopre che le banche possono fallire. Come tutte le società di capitali, anche gli istituti di credito possono, se gestiti male, chiudere baracca e burattini. Nel nostro codice il fallimento vero e proprio non c’è ma tocchiamo con mano in questi giorni che il commissariamento e il bail-in – ossia il coinvolgimento dei creditori non garantiti – sono questioni di primaria rilevanza, sulle quali i nostri rappresentanti al Parlamento Europeo hanno omesso colpevolmente di informare l’opinione pubblica.
Andare a rileggersi le dichiarazioni dei banchieri delle banche coinvolte – responsabili del dissesto – mette una gran tristezza. Tra i tanti, l’ex presidente di Banca Etruria Giuseppe Fornasari che, a seguito dell’avvenuto aumento di capitale (chiamato per coprire le perdite incessanti) disse, memorabilmente : «Un’ulteriore conferma del fatto che rappresentiamo a pieno titolo il ruolo di Popolare di riferimento del Centro Italia e di banca solida, dal corpo sociale coeso».
Ecco. Ci siamo. Siamo arrivati alla parola chiave, “territorio”. Per anni i peggiori banchieri italiani si sono trincerati dietro questa espressione per coprire le loro malefatte, i finanziamenti ad “amici degli amici”, senza uno straccio di garanzia, una seria analisi del merito di credito. Mentre in pubblico, ai dibattiti, i banchieri locali diffondevano il verbo del sostegno all’economia del “territorio”, in realtà venivano finanziate operazioni immobiliari di dubbia qualità che spesso raggiungevano fino al 40% degli impieghi totali della banca. Su 6,77 miliardi di impieghi, Banca Etruria ha il 32% di crediti deteriorati (2,88 miliardi), un record poco invidiabile.
Il sociologo Ilvo Diamanti ha spiegato molto bene come il concetto di territorio non deve essere visto come puro dato geografico, ma come ambiente antropologico: “Lo spazio sociale è fatto di relazioni, vincolate al territorio. Relazioni che vanno anche oltre il territorio, hai comunità il cui spazio non è territoriale; sono comunità professionali, religiose, culturali”.
Il nostro territorio è bellissimo, il FAI è lì per ricordarcelo, ma diversi banchieri locali hanno trovato dentro questa parola la strada per delinquere. Tali banchieri avrebbero dovuto prendere esempio da Piero Melazzini – scomparso poche settimane fa – per lungo tempo alla guida della Banca Popolare di Sondrio. Come ha scritto Marco Vitale, “Melazzini guidò, con mano ferma e sicura, la sua banca verso una crescita importante ma coerente con le sue radici, con la sua storia, con la sua personalità, con la sua valle, senza farsi ingannare dagli idoli della corsa alle fusioni, alle acquisizioni e alla crescita dimensionale fine a se stessa”.
Se andiamo a vedere le banche commissariate dalla Banca d’Italia, leggiamo tutti nomi di luoghi non riconducibili alle grandi città: a, Bcc di Terra d’Otranto, Istituto per il Credito Sportivo, Cassa di risparmio di Ferrara, Cassa di risparmio di Loreto, Cassa di risparmio di Chieti, Popolare dell’Etna, Popolare delle Province Calabre, Banca Romagna Cooperativa, Bcc Irpina, Banca Padovana, Banca Marche, Cassa Rurale di Folgaria, Credito Trevigiano, Banca di Cascina, Banca Brutia.
Non solo gli istituti di credito prestavano a capocchia, ma lo facevano a favore delle parti correlate, ossia dei consiglieri di amministrazioni e dei sindaci (pagati oltretutto profumatamente mentre le perdite di gestione si accumulavano).
Nelle Considerazioni finali del 31 maggio 2014 il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco scrisse: “Bisogna operare per rafforzare la separazione tra fondazione e banca, non consentendo il passaggio dai vertici dell’una agli organi dell’altra ed estendendo il divieto di controllo ai casi in cui esso è esercitato di fatto, anche congiuntamente con altri azionisti. Rapporti stretti con il territorio di riferimento sono, per molte banche medie e piccole, una fonte di stabilità, che si riverbera a beneficio dell’economia locale. Tuttavia, un’interpretazione fuorviante di questi rapporti può distorcere l’erogazione del credito, mettendo a rischio la solidità dei bilanci bancari e l’allocazione efficiente delle risorse. Casi di questo genere divengono più probabili in presenza di una recessione prolungata come quella che abbiamo attraversato. Operiamo per indurre le banche a rafforzare i presidi aziendali, organizzativi e di governo societario al fine di prevenire degenerazioni nei rapporti di credito con la clientela, a correre ai ripari quando queste si siano manifestate” (a voce Visco li ha definì “comportamenti inaccettabili”).
Allora, eravamo a poca distanza temporale dall’arresto di Berneschi, dominus incontrastato di Banca Carige. Il riferimento di Visco non era casuale. Il governatore toccò un tasto dolente: i “debitori di riferimento”, coloro i quali siedono nel consiglio di amministrazione e, approfittando della posizione influente, si fanno finanziare dalla banca stessa. Invece di essere azionisti di riferimento (mettendoci soldi veri), diventano – disgraziatamente per obbligazionisti e contribuenti – debitori di riferimento. Alcune banche hanno trasformato la bandiera della vocazione trerritoriale nella coperta del peggior capitalismo di relazione.
Subito dopo aver letto le Considerazioni finali di Visco, mi arrampicai in alto nella mia biblioteca per recuperare un testo di vent’anni fa, Una privatizzazione molto privata (Mondadori, 1996), dove il capace banchiere Sergio Siglienti inventò l’espressione debitori di riferimento: “Quando una decisione è affidata (anche a livello di comitato esecutivo) a esponenti di imprese clienti della banca, essa può trovarsi a essere di fatto controllata dai suoi debitori” (pag. 95). Ecco il busillis. Per anni in Italia abbiamo avuto “debitori di riferimento”, invece che seri “azionisti di riferimento”.
Torniamo all’oggi. La distruzione patrimoniale di una delle banche commissariate, Banca Etruria, è solo l’epilogo drammatico di una gestione non certo assennata e densa di conflitti d’interesse. Proprio su questo punto, Bankitalia ha smascherato in un’ispezione l’azione nefasta dei “debitori di riferimento”. Tredici ex amministratori e 5 ex sindaci hanno cumulato 198 posizioni di fido a loro concessi per ben 185 milioni di euro. Ne vengono utilizzati 142, con perdite per la banca di 18 milioni. Sarebbe bello sapere i ruoli giocati nella vicenda dalla famiglia del ministro Maria Elena Boschi: il fratello Emanuele era il numero due del settore “crediti deteriorati” e il padre Pier Luigi era vicepresidente del consiglio di amministrazione (sebbene per soli 8 mesi dal maggio 2014 al febbraio 2015), e al contempo era consigliere in una miriade di società immobiliari e cooperative, nonché uomo di punta della Coldiretti locale.
Se è lecito pensare che il direttorio della Banca d’Italia nel corso degli ultimi anni sia stato troppo timido (anche Guido Carli aspettò troppo a commissariare le banche di Sindona , poi suggerì al Tesoro di nominare commissario liquidatore Giorgio Ambrosoli nel settembre 1974) – mentre avrebbe dovuto essere più incisivo con amministratori delegati e presidenti inadeguati al ruolo di banchiere nell’accezione di Raffaele Mattioli – la responsabilità maggiore va agli azionisti che avrebbero dovuto per tempo intervenire e sostituire il management.
Invece abbiamo assistito ad assemblee di approvazione del bilancio con voto bulgaro e per acclamazione. Non di meno, deve essere posto al vaglio di un attento discernimento l’operato della magistratura, la quale riceve puntualmente dalla Banca d’Italia le relazioni ispettive dove sono evidenziate le ipotesi di reato. Così si è espresso il direttore generale di Bankitalia Salvatore Rossi: “Non possiamo fare interrogatori, perquisizioni. Possiamo chiedere, fare ispezioni e dire alla magistratura quello che non va”. Quanto tempo ci hanno impiegato i magistrati di Genova e Vicenza per intervenire con decisione? Quanti giudici hanno nicchiato e coltivato relazioni con i “debitori di riferimento”?
Twitter @beniapiccone