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Così resiste la disparità di genere nel mercato del lavoro. E per il futuro?
Post di Luca Delvecchio, laureato in Discipline Economiche e Sociali all’Università Luigi Bocconi di Milano, ha frequentato il corso di Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Milano. Ha collaborato con l’Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia (IRER) –
I fattori di sperequazione sociale e professionale tra uomini e donne, che confluiscono nel cosiddetto divario di genere o gender gap, resistono tutt’oggi nel nostro Paese come in molte altre aree del mondo. La posizione sociale della donna è profondamente condizionata da immagini stereotipiche che possono indurre comportamenti apertamente discriminatori da parte di uomini in posizioni di potere o capaci, comunque, di incidere sui percorsi di vita di molte donne, dall’infanzia, al momento della scelta del corso di studi, fino all’ingresso nel mondo del lavoro. Non intendo ideologizzare l’analisi di un fenomeno tanto complesso, che vede gli uomini a loro volta influenzati da fattori sociali operanti alle loro spalle, spesso in forme non coscienti; voglio piuttosto iniziare da una considerazione il più possibile neutra dei dati empirici, che a proposito del divario di genere disegnano uno scenario, direi, indubitabile.
Ho trattato in un precedente post dello stacco netto che in Italia separa i carichi del lavoro non retribuito tra uomini e donne, gravando di una quota assai sproporzionata la parte femminile, cui sono affidate normalmente le attività di cura e di autoproduzione domestica (la preparazione dei pasti, la pulizia della casa, la cura dei figli, l’assistenza agli anziani, ecc). A ciò si accompagna una maggiore precarietà del lavoro femminile. Il contraccolpo occupazionale immediato della crisi pandemica nel nostro paese ha inciso sulle donne per il 98%, tanto da indurre a coniare l’espressione she-cession. Alle donne, inoltre, sono mediamente riservate retribuzioni lorde più basse rispetto agli uomini a parità di posizione lavorativa. Il gender pay gap o differenziale retributivo di genere si attesta in Italia nel comparto privato intorno al 17,7% (dato Istat), e il divario si allarga sensibilmente nelle posizioni dirigenziali, in cui la differenza supera il 27%.
La presenza femminile nei corsi di laurea STEM (Science, Technology, Engineering e Mathematics), che garantiscono migliori sbocchi professionali, salari medi più alti, maggiore stabilità lavorativa e più ampie possibilità di carriera, è nettamente inferiore a quella maschile. Nel 2020 secondo Assolombarda la proporzione tra donne iscritte a corsi STEM e totale delle donne iscrtitte a corsi universitari in Italia ammontava a uno scarso 18%. Il restante 82% risultava prediligere, infatti, il gruppo disciplinare letterario, filosofico, artistico e storico. Nell’ambito delle discipline tecnico-scientifiche le donne rappresentavano complessivamente il 37%, risultavano avere performance migliori rispetto ai maschi (il voto di laurea medio era 107,3 per le ragazze e 106,4 per i ragazzi) e il 50% di loro completava gli studi in corso, contro il 48% dei maschi neolaureati. Ciononostante, le laureate STEM vantavano livelli occupazionali e salariali inferiori rispetto ai colleghi uomini. (fonte: Osservatorio Talents Venture e STEAMiamoci sul gender gap nella facoltà STEM).
In generale, dunque, le donne hanno meno tempo da dedicare al lavoro retribuito, godono di una minore stabilità occupazionale e di salari inferiori, e sembrano mostrarte una minore vocazione per le professioni tecniche e scientifiche.
Economisti e sociologi hanno enormemente approfondito i loro studi a proposito dei fattori di discriminazione che colpiscono il lavoro femminile, tanto che se ne potrebbero trarre numerosi volumi. Qui ne proporrò alcuni, tra i più insidiosi e pervicaci, che quotidianamente operano nelle relazioni familiari e di lavoro, condizionando le traiettorie professionali, e dunque esistenziali, di molte donne.
A cosa si devono i fenomeni di segregazione professionale, che concentrano il lavoro femminile in particolari occupazioni? E perché molte di queste corrispondono a impieghi poco remunerati? Perché, infine, in molte professioni, a parità di capacità ed esperienza accumulata, si registra un differenziale salariale che vede le donne sempre in svantaggio?
La teoria del capitale umano
È stato sostenuto che le donne siano meno produttive degli uomini a causa di differenze in alcune abilità e caratteristiche innate o acquisite. Sul piano di ciò che è o sarebbe innato, si è sottolineato principalmente la minore forza fisica e una biologica disposizione alle attività di cura.
Ogni individuo, si suppone, sceglie di perfezionare le proprie capacità innate, investendo in istruzione e formazione sulla base dei rendimenti attesi di questo invetimento. A causa della tradizionale divisione del lavoro all’interno della famiglia, fondata appunto sulle caratteristiche innate di uomini e donne, queste ultime si aspettano di avere vite lavorative più brevi e intermittenti per via delle maggiori responsabilità verso i figli e la casa. Ciò avrebbe due conseguenze: da un lato spingerebbe le donne a contenere l’investimento nella propria formazione; dall’altro le indurrebbe preferire occupazioni che richiedono un minore investimento in capitale umano. Che cosa possa derivarne è, secondo i sostenitori della teoria, piuttosto chiaro, ovvero uno scarso capitale d’esperienza accumulato, una minore produttività media e salari medi pià bassi.
Ma le caratteristiche che definiscono socialmente la femminilità si radicano davvero in fattori biologici innati? Oggi molti pongono l’accento sull’uso ‘culturale’ della biologia e sul perpetuarsi di modelli educativi che forzano o persuadono le donne ad acquisire tratti «femminili», la cui definizione è puramente sociale. Perciò si parla sempre meno di «tradizionale divisione del lavoro nella famiglia» e sempre più di «discriminazione».
Discriminazione
Una teoria alternativa alla precedente indica nella cosiddetta discriminazione statistica uno dei principali fattori di ineguaglianza nel mercato del lavoro. Questo tipo di discriminazione dipende da caratteristiche che la donna è creduta mediamente possedere, come ad esempio una più bassa produttività. Alcuni datori di lavoro possono, ad esempio, ritenere che il profitto generato da una donna sia inferiore mediamente a quello di un uomo; si aspettano, ad esempio, che una donna non torni al lavoro dopo la maternità o che, per qualunque esigenza domestica, sia proprio lei a dover rimanere più spesso a casa; perciò essi valutano che non convenga investire nella formazione della dipendente, o che sia economicamente giustificato pagarla di meno, dato che il suo impegno e la sua costanza potrebbero essere inferiori a quelli di un impiegato maschio. Questo tipo di discriminazione ha come conseguenza, di nuovo, una scarsità di capitale umano accumulato e una differenza di salario che penalizza le donne.
Glass ceilings
Una speciale forma di discriminazione è quella che la Federal Glass Ceiling Commission, istituita nel 1991 da George H. W. Bush e attiva fino al 1996, ha definito come «la barriera invisibile ma invalicabile che impedisce alle donne e agli individui appartenenti ad alcune minoranze di giungere ai gradini più alti della gerarchia aziendale, indipendentemente dalle loro competenze o dai loro risultati». Si tratta di un soffitto di vetro che può determinare pesanti diseguaglianze nel mercato del lavoro. Sono stati formulati quattro criteri che, soddisfatti insieme o separatamente, suggeriscono l’esistenza di soffitti di vetro in un’organizzazione.
Il primo: le differenze nel trattamento delle donne lavoratrici rispetto agli uomini non dipendono da caratteristiche rilevanti per il lavoro come l’istruzione, l’esperienza, la motivazione, l’abilità, ecc. Secondo: la disparità di carriera si fa evidente soprattutto nei settori più alti della gerarchia, poiché il numero delle donne in proporzione agli uomini si riduce via via che dalla base si sale verso il vertice. Terzo: a ogni gradino dell’organizzazione le donne godono di minori opportunità di carriera rispetto ai colleghi maschi; ovvero promozioni e aumenti di stipendio sono riservati con maggiore frequenza agli uomini. Quarto: la disparità di trattamento si fa più evidente all’avanzare della carriera, il che significa che all’accrescersi dell’esperienza non corrisponde un proporzionato aumento di reddito o di autorità. In tutti questi casi c’è probabilmente una barriera che, sebbene invisibile, produce ineguaglianza. (Confronta: The Glass Ceiling Effect, Oxford Academic).
Confidence gap
Gli economisti hanno recentemente cercato di chiarire quali implicazioni abbia nel mercato di lavoro la minore inclinazione per ambiti professionali rischiosi o fortemente competitivi. Si tratta, com’è evidente, di un campo di ricerca sul crinale tra economia e psicologia, il cui scopo è di chiarire l’impatto di certi tratti di personalità maggiormente frequenti tra le donne sulla performance professionale. L’ipotesi di fondo è che i risultati di carriera siano condizionati in modo determinante non solo da produttività e competenze, ma anche dalla fiducia in sé stessi, dal grado di assertività personale, dalla capacità di fronteggiare la paura del fallimento, tutte caratteristiche fortemente legate al genere. Secondo numerosi studi empirici, le donne mostrerebbero una maggiore disponibilità verso gli altri, più coscienziosità ed estroversione; di contro gli uomini sarebbero generalmente più competitivi, sicuri di sé e motivati al successo. Il risultato più rilevante è che i salari sembrano essere correlati positivamente alla sicurezza personale, all’assertività e alla speranza di successo – tratti più spesso maschili -, e in negativamente al timore di fallimento e ad atteggiamenti altruistici – caratteristiche che con maggiore frequenza si riscontrano, invece, nelle donne. (Confronta: Personality and Pay: do gender gaps in confidence explain gender gaps in wages? Oxford Economic Papers)
Class projects
Uno sguardo alla società americana. Un recente studio apparso sull’American Journal of Sociology ha messo in luce che il successo delle donne nel mantenere o migliorare le loro posizioni sociali dipende strettamente da una certa visione di classe rivolta al futuro, ciò che i sociologi chiamano class projects. Ogni donna valuta il grado di importanza da assegnare agli studi universitari, la carriera più appropriata cui dedicarsi, il grado di supporto che è conveniente richiedere o attendersi dai genitori durante e dopo gli studi, chi sposare e quando farlo, quali circoli frequentare, e il tipo di relazione da stabilire col futuro marito, se di dipendenza, di collaborazione o totale autonomia.
Le autrici dello studio hanno individuato tre tipi sostanziali di class projects: la complementarità di genere (gender compelementarity), la partnership professionale (professional partnership) e l’autosufficienza (self-reliance). La complementarità di genere è perseguita quasi esclusivamente nelle classi superiori e prevede che la donna si occupi principalmente di questioni legate all’ambito domestico e a quello sociale; mentre l’uomo pensa all’economia familiare e alle vicende patrimoniali. Questo specifico class project richiede elevate condizioni di partenza e un intenso supporto da parte delle famiglie, almeno finché la donna non si sia assicurata l’agognato legame con un maschio di pari livello, che sappia garantire la conservazione dello status di partenza o il suo accrescimento.
La partnership professionale prevede, invece, che le donne non rinuncino alle aspirazioni di carriera e investano risorse ingenti nella propria istruzione, sostenute dalle famiglie di origine fino all’indipendenza finanziaria, da ottenere prima del matrimonio e della gravidanza. Per il successo di questo progetto, che prevede l’accesso a professioni un tempo esclusivamente maschili, è essenziale il sistema di relazioni fornito dalla famiglia di origine che agevoli il successo nel «mercato coniugale», vale a dire il matrimonio con professionisti di successo che sappiano sostenere la riuscita professionale della donna.
Infine, l’autosufficienza è il progetto più comune tra le donne di classe inferiore, che non possono dare per scontato l’appoggio a lungo termine dei genitori e si confrontano, quindi, con la necessità di acquisire precocemente l’autosufficienza economica anche a scapito dell’istruzione. Un matrimonio remunerativo non è considerato essenziale, dato che le donne in questo caso non ricercano la dipendenza finanziaria o la consonanza professionale con i loro mariti. L’esito, tuttavia, è spesso quello di abbracciate professioni socialmente contraddistinte come «femminili», che procurano per lo più un reddito modesto (si usa a volte l’espressione «colletti rosa» per riferirsi a questo genere di mestieri, che comprende insegnanti, segretarie, cameriere, infermiere, ecc).
Fallimento e successo dei class projects sono, com’è evidente, legati alle condizioni di partenza, dunque alle aspettative e alle risorse (materiali e relazionali) delle famiglie d’origine, e a fattori di contesto come le cerchie di appartenenza e i gruppi di riferimento. Un progetto che non tenga conto di tutto questo è per lo più destinato a fallire. (Confronta: Parents, Partners, and Professions: Reproduction and Mobility in a Cohort of College Women) da The University of Chicago Press Journals.
Modelli culturali specifici
A proposito dell’introiezione dei modelli tradizionali di genere, vale la pena riprendere i risultati contenuti nell’ultima Indagine armonizzata europea sull’uso del tempo (2014). Vi si trova che in Italia più di un maschio su due (il 54,1%) dichiara di ritenere che l’uomo debba occuparsi prevalentemente delle necessità economiche e la donna della cura della casa. Circa la stessa quota di maschi (53,7%) crede di non essere bravo nelle faccende domestiche quanto una donna e quasi uno su tre (31,9%) ritiene non sia giusto dividere equamente i lavori di casa tra partner, anche se entrambi lavorano a tempo pieno. Ma ciò che è più rilevante è che il quadro sostanzialmente non muta tra le donne: il 46,6% approva il modello tradizionale di famiglia in cui il maschio lavora e la donna si occupa della casa, il 25,3% non crede che i lavori domestici vadano divisi equamente, mentre il 44% è convinto che il padre sia meno capace della madre di prendersi cura dei figli piccoli. La situazione, tuttavia, non è territorialmente omogenea: il modello del male breadwinner, il maschio che si occupa lui solo della sussistenza della famiglia, è meno accettato via via che da Sud si procede verso Nord, dove il 79% degli uomini e l’81,2% delle donne approva il modello alternativo del dual earner/ dual career, in cui entrambi i partner lavorano e si occupano delle necessità domestiche. Gli stereotipi tradizionali risentono anche del livello di istruzione: tra i laureati solo il 38,7% degli uomini e il 25,8% delle donne si dice favorevole al modello male breadwinner, mentre il 76,4 e l’82,4%, rispettivamente, approvano il modello dual earner/ dual career.
Persone di 15 anni e più che sono molto o abbastanza d’accordo con alcuni stereotipi sui ruoli di genere per ripartizione geografica
In sintesi
A determinare la sperequazione in fatto di opportunità e reddito che statisticamente colpisce le donne concorrono più fattori. Le teorie che, supportate da numerose ricerche empiriche, hanno cercato di darne spiegazione non sempre collimano, ma tutte lasciano intravedere un filo rosso che congiunge famiglia, mercato del lavoro e organizzazioni. Ciascuna pone l’accento su un ridotto gruppo di fattori, ma tutte, direttamente o indirettamente, chiamano in causa la tradizionale assegnazione dei compiti entro la famiglia, i modelli educativi che femmine e maschi sono spinti a introiettare, l’impatto che tutto questo ha sulla psicologia personale (confidence gap), sulle aspettative di lavoro e di studio, sull’accumulazione del capitale di competenze da spendere nel mercato delle professioni, sulle attese che i datori di lavoro nutrono rispetto all’efficienza delle loro dipendenti, e infine sulle disparità di trattamento che queste attese, in concorso con alcuni stereotipi di genere, producono a ogni livello delle organizzazioni (glass ceilings). Alcuni studi gettano uno sguardo alle condizioni personali e familiari delle donne, alla loro consapevolezza rispetto a certi percorsi esistenziali (class projects), irrealistici o possibili, cui corrispondono posizioni professionali e specifici status, e che dipendono strettamente dal contesto familiare e sociale e dal genere di relazione stabilita rispetto ai maschi nel matrimonio.
Il Global Gender Gap Report 2021 del World Economic Forum prevede che il percorso necessario per la parità di genere nel mercato del lavoro non si completerà prima di 277 anni. Data la complessità e la numerosità dei fattori in gioco, e l’imprevedibilità della loro evoluzione, nessuno può fare previsioni davvero attendibili su periodi tanto estesi; qualunque ipotesi di questo tipo ha piuttosto il sapore del paradosso o della provocazione; ma la tendenza storica verso una effettiva riduzione delle diseguaglianze di genere appare chiara. E forse inevitabile.