Dopo la COP 26, quale strategia climatica per le imprese?

scritto da il 09 Dicembre 2021

Post del professor Stefano Pareglio, Università Cattolica del Sacro Cuore, Deloitte Independent Advisor, Sustainability Services – 

Molto si è discusso sugli esiti della COP 26 di Glasgow. È stata un successo o un fallimento? Nessuno dei due, per chi è abituato a seguire l’attività della Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite. Un negoziato con quasi 200 Paesi, con diverse responsabilità e aspettative, nessuno dei quali vincolato ad assumere uno specifico impegno, non è – all’evidenza – facile da gestire.

Il Glasgow Climate Pact (GCP) va dunque inteso come un altro passo del cammino iniziato nel lontano 1992. Un passo insufficiente, se si tiene conto delle evidenze scientifiche sulle modificazioni del clima. Ma necessario, perché il GCP riafferma in modo chiaro l’impegno a mantenere l’incremento della temperatura media terrestre ben al di sotto dei 2 gradi centigradi, perseguendo ogni sforzo per limitare l’incremento a 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali: l’obiettivo dell’Accordo di Parigi è dunque “mantenuto in vita”, come si è detto e scritto. E non era scontato.

Né è poca cosa aver messo in fila più di 50 decisioni formali, oltre a varie dichiarazioni e impegni, tra cui spiccano il taglio delle emissioni di CO2 del 45% entro il 2030, la neutralità carbonica da raggiungere around mid-century, la mitigazione estesa anche agli altri gas serra (GHG), tra cui il metano, e la revisione in termini più ambiziosi dei piani nazionali volontari di riduzione delle emissioni (NDCs) entro la prossima COP27 di Sharm El-Sheikh.

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A ciò si sommano la previsione di intensificare gli sforzi per il phasing down delle centrali a carbone unabated e di un phase-out dei sussidi inefficienti alle fonti fossili (citate per la prima volta nel testo di un accordo, e siamo alla COP numero 26), nonché il reiterato impegno, sinora non mantenuto, di mobilizzare i 100 miliardi annui del fondo per il clima e di indennizzare i paesi più vulnerabili (il cosiddetto loss and damage).

Al di fuori dal vincolo rappresentato dalla Convenzione quadro, ci sono poi l’accordo per fermare la deforestazione (sottoscritto da 130 Paesi, tra cui l’Italia), il Global Methane Pledge (sottoscritto da 109 Paesi, tra cui l’Italia) per la riduzione del 30% entro il 2030 delle emissioni di metano (gas serra dall’altissimo potere riscaldante), o ancora l’accordo per la transizione ai veicoli a zero emissioni (cui l’Italia non ha aderito).

A Glasgow è stato finalizzato il Paris Rulebook, ovvero i “decreti attuativi” necessari per dar corso all’Accordo di Parigi del 2015. Non è un dettaglio per soli addetti ai lavori. Si tratta infatti di regole per la rendicontazione delle emissioni e degli assorbimenti di GHG, e dunque per il monitoraggio degli impegni degli Stati.

Di particolare rilievo è l’accordo – che dovrà ora essere precisato e quindi reso operativo – sul mercato globale della CO2, il ben noto articolo 6 del Paris Agreement. In base a esso, i Paesi e le imprese possono ricorrere al mercato internazionale del carbonio per dare attuazione agli impegni di riduzione determinati a livello nazionale (NDC) e a livello aziendale. Tema molto delicato, che è costato più di 4 anni di trattative, per evitare che le riduzioni vengano conteggiate due volte, per trovare una sistemazione alla partita dei crediti ex-Kyoto, per assicurare efficacia ai crediti volontari nature-based e per generare risorse per l’adattamento (share of proceeds).

In questo contesto, quale strategia climatica devono adottare le imprese?

Secondo uno studio di Deloitte Italia pubblicato di recente, le società italiane manifestano una crescente consapevolezza sul tema del cambiamento climatico: il 53% delle relazioni finanziarie annuali 2020 delle società quotate sul MTA contiene informazioni sul clima (+11% rispetto allo scorso anno). Spesso però si tratta di informazioni di contesto o di mercato, in larga misura qualitative, riflesse solo in parte sulla gestione dei rischi, ancor meno sulla strategia e quasi per nulla sulle poste iscritte in bilancio.

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Altre indagini in passato erano giunte a considerazioni analoghe. Infatti, mentre cominciano a farsi strada sia il ricorso ai crediti volontari per la compensazione delle emissioni GHG, sia l’integrazione degli obiettivi climatici nelle remunerazioni dei vertici aziendali, difettano ancora le analisi di scenario, la quantificazione degli impatti finanziari, il ricorso al carbon pricing. Anche nelle metriche devono essere fatti passi avanti, soprattutto sulla misura delle emissioni Scope 3, sulla certificazione degli inventari di GHG, sull’assunzione di target science based e sull’integrazione della catena di fornitura, anche in termini di circolarità.

In questa fase di assestamento, o di transizione se si preferisce, si registrano casi piuttosto evidenti di green marketing, per non dire di greenwashing. Per converso, si rileva una rapida crescita della disponibilità all’impegno da parte delle imprese.

Nel merito, c’è dunque parecchio lavoro da fare.

Prima di tutto, va stabilito un legame più stretto tra obiettivi climatici (di fatto, rivolti alla neutralità carbonica), strategia aziendale e allocazione del capitale. Coerentemente vanno assunti più estesi orizzonti di piano, avviata una riflessione sul purpose aziendale, assicurato un confronto più approfondito e trasparente con un maggior numero di stakeholder, ampliate le competenze dei board e dei manager, rafforzati i processi di rendicontazione climatica, integrato l’ERM, accelerata l’innovazione di prodotto e di processo, rivista la struttura organizzativa.

Nei fatti, va aggiornato il modello di business e ripensato il rapporto tra impresa e società.