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Geopolitica del magnesio: scorte quasi finite, che cosa succede in Europa?
L’autore di questo post è Guglielmo Gallone, laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza – Università di Roma –
«L’Europa è troppo dipendente dall’estero per il magnesio» ha dichiarato il commissario europeo per il Mercato interno e i servizi, Thierry Breton, nel suo intervento in plenaria al Parlamento europeo a Strasburgo. «Abbiamo visto che la geopolitica delle catene di valori esiste. La nostra dipendenza dall’estero è diventata un’arma geostrategica utilizzata contro di noi e contro i nostri interessi. Questo può avere importanti conseguenze». L’ammonimento di Breton fa eco all’allarme lanciato recentemente da dodici organizzazioni di produttori di acciaio e metalli non ferrosi (tra cui Eurofer, European Aluminium, Eurometaux, Acea): le scorte di magnesio dell’Unione Europea potrebbero esaurirsi entro la fine di novembre. Il motivo? «Per il suo fabbisogno di approvvigionamento, l’Europa dipende dal magnesio cinese per il 95%». E cosa fa la Cina? Il Dragone Rosso ne ha interrotto l’esportazione. Come mai? Perché il processo di fusione è in gran parte alimentato a carbone. Quindi, per raggiungere i risultati climatici fissati dai Paesi, bisogna ridurre la produzione. Risultato finale? Il prezzo del è schizzato alle stelle.
Il magnesio è un metallo leggero che in natura non esiste allo stato libero. Si trova in soluzione nell’acqua di mare e nelle salamoie naturali, oppure nei minerali magnesite e dolomite. Se lo si vuole produrre, lo si deve combinare con altri elementi. Con l’alluminio, ad esempio. Questi due metalli, insieme, permettono di produrre i cerchi degli pneumatici automobilistici, il cruscotto delle macchine, i nuclei dei volanti e le lattine per le bevande. Poi, l’ossido di magnesio è usato per la produzione di ferro, acciaio, vetro e cemento. Altri composti sono fondamentali in agricoltura (clorofilla) e nell’industria chimica. Dalla combinazione fra magnesio e lega vengono prodotti anche i componenti essenziali per l’industria missilistica e aeronautica. Lo si trova pure tra le mani dei sollevatori di pesi, sotto forma di polvere, per migliorare la presa con il bilanciere. Il Kindle Paperwhite di Amazon è realizzato per il 70% con magnesio pressofuso. Per non parlare della presenza in cereali, cacao o lenticchie. Insomma, questo elemento è ovunque: dopo il ferro e l’alluminio, è il metallo più usato.
Eppure, c’è un problema: il processo di trattamento del magnesio inquina. Ci sono due modi per produrlo. La riduzione termica dell’ossido di magnesio e l’elettrolisi del cloruro di magnesio. Nel primo, il minerale viene frantumato e riscaldato in un forno (il processo si chiama calcificazione). Invece, nel processo elettrolitico ci sono più fasi. In primis, si estrae il magnesio puro dall’acqua di mare o dalla salamoia. Poi lo si converte in cloruro, riscaldando l’ossido in un forno elettrico e usando il carbonio. Lo si disidrata e alimenta in celle elettrolitiche caldissime. Infine, il metallo fuso viene inserito in appositi lingotti.
Il Re del magnesio è il Dragone Rosso. Se nel 1995 la Cina ne produceva solo il 5%, oggi risponde all’87% della domanda globale (fonte CM Group). Nel 2001, mentre la produzione cinese dilagava, l’Europa chiudeva il suo ultimo impianto. Nel 2020 la Cina ha generato 155.000 tonnellate di magnesio. Per trattare questo metallo sono necessari edifici adatti a contenere grandi forni. Ma queste strutture utilizzano moltissima energia ed emettono molto carbonio. Quindi, inquinano. Per raggiungere gli obiettivi trimestrali di efficienza energetica fissati da Pechino e dalle autorità internazionali, la Cina ha chiuso 25 impianti nelle province di Shaanxi e Shanxi. Altri cinque operano a metà della loro capacità. Nella sola città di Yulin, le autorità hanno ordinato a 35 fonderie su 50 di sospendere la produzione fino alla fine del 2021. Cosa significa? Che la Cina sta tagliando la produzione di magnesio del 50%. Ecco il motivo del rialzo dei prezzi. Come diceva un editoriale del China Daily il 25 ottobre, «la scarsità di magnesio è un esempio di come il consumo energetico e le emissioni di carbonio della Cina sono intrecciate con le catene di approvvigionamento globale».
Se la decisione cinese può risultare fatale per l’Europa, il discorso è diverso per gli Stati Uniti. Lo United States Geological Survery rivela che la produzione americana dipende per il 23% dal Canada, per il 20% da Israele, per l’11% dal Messico e per il 9% dalla Russia. Sia in Canada sia in Nevada si stanno finanziando nuovi impianti. Per ora la scelta europea di dipendere da un unico fornitore si dimostra quella più rischiosa. Nel frattempo, un portavoce di Bruxelles ha riferito a Reuters che «la Commissione è consapevole dell’attuale carenza di magnesio che sta colpendo le catene di approvvigionamento di tutto il mondo e monitora attentamente la situazione. Stiamo sollevando la questione con i nostri colleghi cinesi per risolvere le carenze immediate e valutiamo soluzioni a lungo termine per contrastare questa dipendenza strategica».
Di fronte all’attuale emergenza climatica (che esiste e deve essere necessariamente risolta, nessun dubbio su questo), i Paesi occidentali puntano il dito contro i paesi in via di sviluppo, che vivono di mercati come quello del magnesio, e impongono una sterzata. Ma gli occidentali, in questo giusto e forte richiamo alla responsabilità climatica, sembra stiano dimenticando troppe cose. La nostra energia dipende (quasi) completamente dai Paesi in via di sviluppo. Inquinano loro che la producono, inquiniamo noi che la vogliamo e utilizziamo.
Ancor più, i leader occidentali si dimenticano che se chiudi i rubinetti per produrre un bene, il prezzo di quel bene sale. E a pagare le spese di una rivoluzione necessaria ma che, forse, sotto alcuni aspetti potrebbe essere fatta in modo più progressivo, saranno (ancora una volta) soprattutto loro: i poveri.
Twitter @g_gallone
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