categoria: Vicolo corto
Qual è il segreto della felicità nel mondo del lavoro ibrido e iper connesso?
Post di Benedetto Buono, manager, business angel, autore del saggio Business Networking –
Qual è il segreto della felicità? La risposta a questa domanda è tutto fuorché banale e scontata: dal punto di vista filosofico potrebbe richiedere innumerevoli libri per essere affrontata e, molto probabilmente, non troverebbe risposta definitiva, essendo una delle domande ancestrali che caratterizza l’essere umano dall’alba dei tempi.
Tuttavia, in un’accezione puramente lavorativa, cioè business e quindi molto più in linea con i contenuti del blog che ospita questo post e le competenze dell’autore, la risposta può essere – in un certo senso – molto più semplice e immediata di quanto si possa pensare. Non voglio però svelare subito “l’assassino”. Come nei migliori romanzi gialli è bene, infatti, arrivarci per gradi.
Innanzitutto, sarebbe meglio riformulare la domanda in termini più stringenti, al fine poi di caratterizzare puntualmente un tentativo di risposta. La domanda riformulata è la seguente: Qual è il segreto della felicità nel mondo del lavoro ibrido, perennemente tra l’on e l’off line, che oggi viviamo?
Per provare a rispondere, ho pensato ad una delle giornate lavorative tipo che, come tutti, ho vissuto negli ultimi diciotto mesi. Tale giornata tipo è, di fatto, un indefinito flusso di call, video meeting, messaggi in chat e, nel tempo rimanente tra le pieghe di queste attività, produzione di documenti e contenuti. Tali attività, dalla mattina alla sera, anche per dieci o dodici ore al giorno, tutti i giorni, senza soluzione di continuità.
La differenza rispetto all’ante marzo 2020 è che ora tutto ciò è esasperato nella quantità, essendoci per forza di cose ritrovati confinati dietro a uno schermo, semmai in prolungati periodi di smart working (che di smart hanno davvero poco), e senza neppure più il conforto delle chiacchiere scambiate con i colleghi del proprio ufficio. Le call o le video, infatti, hanno tempi e crismi non scritti prestabiliti: si chiama qualcuno per chiedere qualcosa, per risolvere un problema specifico, per chiudere un task al volo. Non c’è tempo per i fronzoli, per il puro chatting, come dicono gli anglofoni. A tutto beneficio della produttività ovviamente ma, verosimilmente, a tutto discapito del benessere personale dei singoli (e, quindi, in ottica diffusa, delle intere organizzazioni).
Ed ecco quindi un fiorire di corsi per gestire il lavoro da remoto, lo stress digitale e la gestione del tempo, con l’emergere e l’affermarsi anche di figure come il Chief Happiness Officer che dovrebbe avere sulle spalle la responsabilità della felicità dei lavoratori della propria azienda: un compito da far tremare i polsi anche al più navigato dei top manager, si potrebbe dire.
Rilette così, le nostre giornate da hard smart workers, hanno decisamente poco del sapore della felicità.
In realtà, al loro culmine le giornate lavorative “mal vissute” hanno un’ulteriore caratteristica che mi sono reso conto accomunarle: non prevedono la pausa pranzo. Per pausa pranzo non si intende mangiare un panino al proprio desk continuando ad osservare gli indici di borsa, come fanno i trader, o trangugiare qualcosa macinando fogli Excel: si intende prendere del tempo, per mangiare o fare altro che non sia lavoro, in maniera consapevole. Le giornate lavorative così piene da non poter dedicare un tempo decente al momento del pranzo si candidano prepotentemente ad essere il culmine del malessere psico-fisico.
Personalmente, mi ero reso conto di questa cosa già tanti anni fa – oltre un decennio fa ormai – quando da giovane aspirante manager iniziai la mia carriera professionale nel luccicante mondo della consulenza aziendale. Il mondo del lavoro era vissuto ancora quasi totalmente de visu, tipicamente in sede dal cliente di turno, ma le giornate peggiori erano quelle che non consentivano di fermarsi neppure trenta minuti (o meno) a pranzo. E di giornate così, purtroppo, ce n’erano tante, come è frequente in settori come la consulenza, appunto, o come le banche d’affari, soprattutto in ruoli junior.
Non avere tempo quindi, neppure per staccare un po’ il cervello a metà giornata, facendo un pasto decente, una passeggiata o semplicemente pensando ad altro che non sia il lavoro, oggi più che mai nell’era dell’iper-connessione e dell’always on appare estremamente deleterio.
Il nuovo vortice dell’iper-produttività ci sta trascinando in giornate lavorative non stop anche negli ultimi mesi, durante i quali la situazione contingente sta gradualmente consentendo di tornare a vivere (e lavorare) in presenza (sperando che il trend non si arresti). Ormai ci si è abituati e si dà per scontato che è quasi un orpello inutile prendere del tempo per sé stessi durante il flusso lavorativo.
Anche Ruchika Tulshyan, in un bellissimo articolo pubblicato nel gennaio scorso sulle pagine di Harvard Business Review dall’evocativo titolo “Take Your Lunch Break!”, ha analizzato, dati alla mano, come il concedersi delle vere pause pranzo si possa collegare direttamente a una maggiore soddisfazione sul lavoro e a un incremento (ulteriore!) di produttività. Affinché si scardini il loop in cui si è entrati, si suggerisce che siano i leader aziendali a creare le condizioni da cui derivi una vera e propria sicurezza psicologica grazie alla quale i dipendenti possano prendere del doveroso tempo di ristoro (ovviamente, il break non deve per forza essere dedicato al pasto, si possono condurre le più svariate attività, anche sportive, l’importante è che siano diverse dal lavoro routinario).
Nell’articolo, si invoca la costruzione di una inclusive lunch culture in ogni luogo di lavoro, anche mediante semplici azioni routinarie, che vanno dal rendere visibile il break (allontanarsi fisicamente dal proprio desk, che sia a casa in smart working o in un qualsiasi ufficio) all’evitare di impegnare l’agenda con meeting o altri task lavorativi nella fascia oraria da dedicare alla pausa. Tutto ciò, naturalmente, non vuol dire che non possa capitare di saltare una pausa pranzo, ma è importante che resti un’eccezione e non diventi mai la regola.
Questo è importante anche per gli imprenditori ed i freelance, che devono auto-regolarsi: tipico è il caso degli startupper che, da manuale, sono sempre presi da mille attività in qualsiasi momento del giorno (e della notte) e nel qual caso è imprescindibile dotarsi di “paletti” da non travalicare (quando è il momento di staccare, si stacca), allontanando così anche il famigerato e quanto mai diffuso rischio di burn out.
Aggiungo quello che, a mio avviso, è l’aspetto più importante di tutti: rinunciando alla pausa pranzo, si rinuncia alla possibilità di “alzare” la testa rispetto alle attività quotidiane pensando ad altro e, soprattutto, all’opportunità di condividere il momento di pausa con altri individui. Si rinuncia, quindi, alla possibilità di coltivare relazioni, di fare networking, che sia con i nostri colleghi o con altre persone esterne all’organizzazione per la quale lavoriamo.
I mesi di distanziamento sociale ci hanno ricordato l’importanza insostituibile della connessione umana e la maggior parte di noi non vede l’ora di tornare a trascorrere del tempo di persona con altre persone, ovviamente in sicurezza. Anche oggi nel mondo ibrido, che quasi certamente rappresenterà il nostro new normal per molti decenni a venire, dividendoci tra relazioni digitali e in presenza, possiamo e dobbiamo sforzarci di recuperare l’aspetto relazionale di ogni momento possibile: uno di questi, forse il più importante nella settimana lavorativa di ognuno, proprio perché ricorrente, è la pausa pranzo.
D’altronde, già il grande Keith Ferrazzi nel suo celebre libro “Never eat alone”, aveva messo nero su bianco l’importanza di passare il proprio pranzo in compagnia di qualcuno, rendendolo giornalmente fonte di nuove opportunità o, più semplicemente, di arricchimento umano ed intellettuale.
Detto tutto quanto sopra, quale può quindi essere la risposta ideale alla domanda formulata in apertura del post? A mio avviso, il segreto (o uno dei segreti) della felicità nel mondo del lavoro ibrido, che ci vede sempre più intercambiabili tra il mondo virtuale e quello reale, risiede nel ricavarsi un po’ di tempo per sé stessi e il proprio benessere psico-fisico ogni giorno, idealmente per una soddisfacente pausa pranzo e possibilmente in compagnia di altre persone.
Vivere e sopravvivere nel nuovo mondo del lavoro ibrido richiede impegno e regole: affrontarlo insieme agli altri, come tutte le cose della vita, non può che renderlo migliore.
Twitter @bennybuono